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16/01/2019

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Paduano (Ogilvy): anche le PMI hanno fame di marketing

Per crescere sono necessarie strategie digital, di vendita e organizzative. Le aziende devono comprendere che per riuscire a diventare una marca occorrono un cambiamento culturale, tempo e investimenti in comunicazione. Anche per quelle B2B

Voglia di diventare brand, di creare strategie di comunicazione efficaci e di crescere a livello digital. Questo è ciò che maggiormente chiedono le aziende. Ma il percorso non è affatto semplice e richiede i suoi tempi e una visione chiara e d'insieme. Per questo le aziende chiedono di essere guidate e il marketing diventa fondamentale. Ne abbiamo parlato con Pietro Paduano, Managing Director, Italia, Ogilvy Consulting.

Da più parti si sente dire che il marketing è morto. Quanto c'è di vero?

Non è affatto morto. Il marketing esiste da quando c'è l'umanità, con i primi scambi commerciali. Le cose di fondo non sono cambiate perchè le persone e le aziende di scambiano merci ed opinioni. Il marketing casomai si evolve: i principi rimangono gli stessi ma oggi si vive in un mondo totalmente diverso, dove la tecnologia è pervasiva. Bisogna anzi ricominciare a parlare di marketing, perché è da un po' che si è perso il focus su questa disciplina meravigliosa.
Si parla di tante cose che sono collaterali rispetto al marketing, come disruption, digital e content.

Il punto è trovare una formula giusta per collegare le aziende ai loro consumatori e far guadagnare le imprese, facendogli produrre profitto nel medio-lungo termine. Questo è il motivo per cui nasce il marketing che quindi "è vivo e lotta con noi".

Come opera Ogilvy Consulting e in che cosa si differenzia dagli altri player di mercato?

La peculiarità di Ogilvy è che, avendo una tradizione molto forte sulla cultura di brand, partiamo sempre da quello che la marca può e deve dire nel breve e lungo periodo. Siamo probabilmente un po' più creativi delle società di consulenza nel senso che troviamo idee e soluzioni. Non parlo della creatività classica della comunicazione. Siamo probabilmente anche più agili, lavoriamo in modo abbastanza veloce poiché la velocità è un altro mantra dei nostri tempi, e progetti consulenziali che durano anni non possono più esistere.

Che cosa vi chiedono principalmente i clienti?

Ci chiedono tre cose. La prima è una strategia di marketing. Sempre più spesso i clienti arrivano da noi con una innovazione, per esempio di prodotto, ci chiedono di validarla, un consiglio sul pricing, sui canali di contatto, non solo di comunicazione, ma anche di vendita più opportuni.

Quindi ci stanno ricominciando a sfidare sulla strategia di marketing.
Ci chiedono di diventare brand: abbiamo aziende molto forti (anche in ambito B2B) che sentono l'esigenza di diventare rilevanti per il loro target, compreso il procurement, diventando una marca. C'è quindi un tema di brand strategy che torna in modo abbastanza prepotente.
Poi, dopo le tante mode che il digital ha portato da qualche anno a questa parte, ci chiedono di orientarli. Parlavo recentemente con un direttore marketing che mi ha detto sconsolato: "adesso siamo nell'epoca dei micro influencer, cosa verrà dopo? Aspettiamo la prossima ondata". Chiedono quindi una guida abbastanza onesta dal punto di vista intellettuale per scegliere tra i vari strumenti digital a disposizione, quali sono effettivamente quelli più sensati per loro.

E se parliamo solo di clienti B2B?

Il marketing B2B non è soltanto ottenere lead qualificate da far poi contattare al reparto vendite. Il settore ci chiede, in modo anche abbastanza pressante, come diventare una marca agli occhi degli interlocutori, compreso il procurement.


Stiamo adesso lavorando con aziende che producono software professionali che ci dicono che "quando vado a parlare col procurement siamo paragonati a player abbastanza affermati. Il fatto di non essere una marca ci penalizza. Eppure abbiamo un software meraviglioso, un prezzo conveniente e un modello interessante". Quindi anche verso interlocutori molto "hard" l'esigenza è quella di affermarsi come marche, anche in ambito business.

Quanto è complicato per un'azienda diventare un brand?

E' un fatto che richiede tempo più che complicazione. Non è facile diventare una marca rilevante agli occhi delle persone nel giro di poco tempo. Questo per ovvi motivi: il mercato è affollato e richiedere ed ottenere l'attenzione da parte degli utenti è sempre più difficile.
Le marche, da un certo punto di vista, competono tra loro a prescindere dalle categorie merceologiche. Quindi ci vuole del tempo, della consistenza, occorre quella che chiamiamo "brand linkage": non è importante solo che le persone ti riconoscano, ma che connettano ciò che hanno visto alla tua marca, a ciò che rappresenti.


Sono processi di sedimentazione che possono richiedere anni e anche investimenti costanti, questo perché se non comunichi, probabilmente nel giro di sei mesi le persone si dimenticano di te, soprattutto se sei in una fase iniziale del tuo posizionamento.

Quanto conta la struttura dell'azienda nell'essere "guidata" dal vostro lavoro?

Conta moltissimo. Noi lavoriamo parecchio con le aziende italiane, le quali hanno possibilità di essere più libere di innovare e portare a terra progetti. Quindi con loro stiamo facendo cose interessanti. Più la struttura è agile lato cliente più diventa semplice. Meno politica c'è e più si va avanti diretti, quindi il tema organizzativo è importante.

Incontrate resistenze culturali?

Si, però lì è compito nostro cercare di bypassarla. Come dicevo prima, alcune resistenze culturali rispetto al digital un po' i player del nostro settore se le sono chiamate. Perché se per anni parli di video viral, di influencer marketing - o meglio, metti la parola marketing alla moda del momento - è chiaro che nel lungo periodo perdi di credibilità.


Qui si tratta di tornare con i piedi per terra ed essere molto onesti con i clienti.

Come possono crescere quindi le aziende in un mercato sempre più complesso e frammentato?

Io credo tantissimo nell'innovazione di prodotto. Devo aver letto che a livello mondiale il mercato dell'advertising cresce del 6% all'anno. Questo non vuol dire che decrementino gli investimenti in marketing, e si cresca soltanto in comunicazione. Parte di questi fondi verrà messa probabilmente nella definizione di una esperienza utente un po' più unica, ma anche nell'innovazione di prodotto.
Quindi, sempre di più comunicazione e prodotto ritornano nell'alveo del marketing. Come era vent'anni fa, prima che ci fosse la diaspora e in qualche modo la comunicazione era uscita dal marketing. Ancora una volta occorre insistere sui fondamentali del marketing riattualizzandoli.

Quali sono le trasformazioni in atto e come evolverà il business nei prossimi anni?

Le trasformazioni sono tantissime. C'è quella di canale, ci sono alcuni consolidamenti, che secondo me rischiano di essere un po' limitanti per le aziende.


La maggior parte del nostro mercato della comunicazione è assorbita da Facebook e da Google, che non sono sempre strumenti che ci lasciano grande libertà di fare un racconto di marca completo ed emotivamente rilevante per le persone.
Io credo che ci sarà un ulteriore consolidamento, ma al tempo stesso le marche dovranno trovare degli altri sistemi per arrivare più direttamente alle persone senza passare soltanto da queste piattaforme. E adesso arriverà il terzo incomodo, Amazon, parlo della comunicazione, non tanto dell'eCommerce. Quindi il futuro delle marche sarà produrre cose talmente rilevanti, esperienze uniche, prodotti importanti per le persone, tali da poter essere veicolati anche da piattaforme diverse da quelle appena citate.

Qual è il percorso vincente per implementare oggi la digital transformation?

Si deve articolare in fasi. La prima cosa da fare è valutare la maturità dell'azienda in ambito digital. Maturità significa di quali dotazioni è fornita, che livello culturale c'è su questi temi a livello organizzativo, se ci sono alcune funzioni che sono "padrone" del tema digital oppure se è una competenza liquida e diffusa.


Quindi occorre stabilire la maturità dell'azienda rispetto al mercato e i competitor.
Poi si tratta di fare delle scelte, definire delle priorità - non si può fare tutto e non si possono acquistare tutte le tecnologie esistenti - e fare una roadmap. Ciò significa parlare di tempi ma anche di costi, e fare delle business case (quell'investimento cosa mi porterà), consapevoli che si possono fare delle ipotesi insieme ai clienti, si possono fare dei ragionamenti, ma non esiste la ricetta uguale per tutti. Che è un po' il mio mantra.
Successivamente si sviluppa un piano di azione che non si fa condizionare dal fatto che è arrivata l'ultima moda o una nuova tecnologia. Quindi consistenza e formazione delle persone. Poi ci sono anche cambi organizzativi. Noi abbiamo affrontato anche questo tema per alcuni clienti, che prevedeva revisione dei ruoli, dei processi, delle tecnologie di condivisione delle decisioni. E' chiaro che per aziende più piccole è molto più semplice e si riesce a lavorare di più con un numero di persone numericamente inferiore a quello delle multinazionali.
Le PMI hanno fame di marketing, perché non sempre sono dotate di reparti numerosi o estremamente specializzati.


Hanno necessità di trovare risposte abbastanza semplici e azionabili nel breve periodo, e quindi lasciano più libertà di portare a casa li risultato. Questo poiché ci sono meno processi decisionali lunghi, meno step di validazione e quindi si lavora in modo più agile.


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