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10/09/2014

idee

Imprese femminili: 2 su 3 sono figlie del nuovo secolo

Sono meno strutturate e più sottodimensionate rispetto alla media nazionale, e proprio per questo hanno ampi margini di sviluppo. Il 94% ha meno di 5 addetti, solo 80 tra le "grandi" con oltre 500 dipendenti

Sono la metà del cielo e anche qualcosa di più in termini demografici ma, ancora a metà del 2014, le donne rappresentano solo il 21,4% dell'universo delle imprese che operano in Italia (circa 1,3 milioni su poco più di 6) e il 45,23% degli occupati dipendenti (7,6 milioni sul totale di 16,6 occupati alle dipendenze). E tuttavia le donne stanno facendo fronte alla crisi con risolutezza e creatività. Anzitutto creando nuove imprese a un ritmo superiore alla media: +0,73% l’incremento dello stock di imprese femminili registrato tra aprile e giugno di quest’anno, contro una variazione media complessiva dello 0,42%. E poi approfittando degli spazi che la crisi ha aperto rispetto alla ricerca di un posto di lavoro: nel 2014 si è ulteriormente ampliata la quota di assunzioni per le quali i datori di lavoro considerano irrilevante il genere del candidato (52,8% rispetto al 48,5 del 2010), con la conseguenza - pur in un quadro che resta negativo per l’occupazione complessiva - di poter concorrere più spesso ad armi pari, rispetto agli uomini, al momento di candidarsi per un posto di lavoro.

 Questo, in sintesi, il ritratto del contributo delle donne al mondo dell’impresa e del lavoro che emerge dai dati dell’Osservatorio dell’Imprenditoria femminile di Unioncamere-InfoCamere - aggiornati alla fine di giugno 2014 - e dalle indicazioni del Sistema informativo Excelsior, di Unioncamere e Ministero del Lavoro, relativamente ai fabbisogni professionali delle imprese con dipendenti per l’anno in corso. 
L’impresa femminile – ha detto il Presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello - si conferma meno strutturata e più sottodimensionata rispetto alla media dell’imprenditoria nazionale, e proprio per questo ha ampi margini di sviluppo che vanno colti per ridare slancio all’occupazione e alla crescita. Va sostenuto e promosso il desiderio di tante donne, capaci e qualificate, che guardano all’impresa e al mercato come un’opportunità per essere protagoniste del proprio progetto di vita. Di fronte a queste aspirazioni e con un’economia che non riparte, le istituzioni hanno il dovere di dare risposte concrete per facilitare questi percorsi.

Il sistema camerale – attraverso la rete dei comitati per l’imprenditoria femminile presenti in ogni Camera di commercio – mette a disposizione strumenti mirati allo sviluppo di questi progetti con iniziative per la formazione, l’accesso al credito, l’internazionalizzazione”. Il quadro d’insieme

L’imprenditoria femminile, a metà del 2014, propone un ritratto fedele del momento che sta vivendo il Paese: da un lato, s’intreccia senza nette demarcazioni con il fenomeno dell’autoimpiego in risposta alla necessità di trovare uno sbocco occupazionale, soprattutto per chi ha perso un lavoro (magari precario). Dall’altro, intercetta il profilo di un’Italia possibile e auspicabile, in cui le maggiori opportunità di benessere verranno dell’incrocio di attività manifatturiere e artigianali con lo sviluppo di servizi ad elevato contenuto innovativo e supportati dalle tecnologie della rete. E dunque fa ben sperare la concentrazione di imprese femminili soprattutto nei servizi alle persone e alle imprese, nel turismo sostenibile, nel recupero delle tradizioni agroalimentari, nella tutela del paesaggio e del patrimonio artistico e culturale. 
A pesare maggiormente sulle prospettive delle donne che decidono di fare impresa, tuttavia, restano le difficoltà legate alla solitudine decisionale in cui spesso le imprenditrici si trovano a operare, unite alla frequente insostituibilità – per via della struttura organizzativa adottata dall’impresa - della figura dell’imprenditrice nei processi di lavoro e nei rapporti con il mercato. Una condizione, questa, che espone l’impresa ‘rosa’ agli imprevisti legati alla vita personale e famigliare della titolare che spesso finiscono per ricadere sull’azienda, rendendola così più fragile. A queste problematiche servono sia risposte sul campo, come le azioni di formazione e assistenza personalizzata (coaching e mentoring), sia e soprattutto politiche capaci di ascoltare e dare risposte specifiche ai fabbisogni della componente imprenditoriale femminile.




Longevità sul mercato

Rispetto alla media degli imprenditori, le donne che fanno impresa pagano un’esperienza relativamente più ‘breve’ del mercato, misurata sulla base dell’età delle loro aziende. La quota di imprese femminili nate dopo il 2000 - e dunque con meno di quattordici anni di vita - è infatti pari al 65,7% di quelle oggi esistenti (contro il 60,3% della media complessiva), mentre solo il 12,4% può vantare una data di nascita all’anagrafe delle imprese anteriore al 1990 (contro il 16,6% della media). Il fattore dimensionale

Alla minore esperienza del mercato si associa una più marcata fragilità della struttura organizzativa rispetto alla media delle imprese: il 65,5% delle attività guidate da donne, infatti, è costituito nella forma di impresa individuale, contro una media del 54%. Si spiega anche così la più marcata prevalenza della taglia ‘extra-small’ tra le imprese femminili: il 69,5% conta unicamente sulla titolare o al massimo un addetto (a fronte di una media del 67,5), mentre il 94,2% non supera la soglia dei 5 addetti (91,6 la media).


Un’ulteriore conferma che, per le donne, “impresa” fa più spesso rima con “autoimpiego”. Che il mercato sia per molte di esse la risposta obbligata alla difficoltà di trovare un lavoro, emerge anche dal dato territoriale: la quota di micro-imprese femminili (quelle con titolare o al massimo un addetto) è significativamente più alta nel Mezzogiorno - con punte superiori al 75% in Basilicata, Molise, Campania e Sicilia – rispetto al resto del Paese. Considerando l’attività economica svolta, i settori dove la presenza di micro-imprese ‘rosa’ è più elevata sono l’agricoltura (dove 88,6% delle imprese femminili del settore non superano la soglia di un addetto), le attività finanziarie e assicurative (87,4%), le attività immobiliari (83,6) e quelle professionali, scientifiche e tecniche (78,1). 
Uscendo dalla prospettiva ‘micro’ appare poi evidente come, con l’aumentare della dimensione d’impresa, la quota ‘rosa’ si assottigli progressivamente fino a diventare davvero esigua nell’élite delle grandi imprese.


  Su un totale di 4.276 aziende con più di 250 addetti, quelle guidate da donne sono appena 230 (il 5,4%), ma se si restringe l’osservazione alle imprese veramente ‘grandi’ (oltre i 500 addetti), su 1.734 aziende ‘extra-large’ quelle guidate da donne sono solo 80 (il 4,6%). Settori

Al 30 giugno scorso, il 70,5% di tutte le imprese ‘rosa’ (912.664 su 1.294.880 unità) si concentrava nei settori dei servizi alla persona, della sanità, dell’istruzione, dell’agricoltura, del commercio e turismo, dell’intrattenimento. Tutti questi settori sono contraddistinti da valori del tasso di femminilizzazione (ovvero la quota di imprese femminili rispetto al totale di quelle presenti sul territorio) superiori alla media complessiva del 21,4%, con punte del 46,2% nei servizi alla persona e del 38,5 nella sanità e assistenza sociale. Costruzioni, fornitura di energia elettrica, trasporti ed estrazione di minerali sono invece i settori meno praticati dalle donne, con tassi di femminilizzazioni inferiori al 10%. Forme organizzative

Per aumentare la propria competitività e capacità di innovazione, imboccare con più sicurezza la strada dell’internazionalizzazione  e per fronteggiare la crisi e il blocco del credito, negli ultimi anni le imprese femminili hanno adottato sempre più spesso forme giuridiche più strutturate.


Al 30 giugno scorso le società di capitale guidate da donne hanno raggiunto il valore di 232.609 unità, corrispondenti ad un peso sul totale delle imprese costituite con questa forma giuridica del 15,9%. Più rilevante, in termini relativi, appare il ricorso alla forma di impresa cooperativa (il 20,6% di tutte le cooperative è a guida femminile), una forma più spesso rispondente alle esigenze di organizzazione delle attività imprenditoriali scelte dalle donne. Mercato del lavoro

La forte riduzione nel numero di nuove assunzioni programmate dalle imprese in questi anni di crisi, ha coinciso con una riduzione della quota di entrate per le quali i datori di lavoro indicano una preferenza verso il genere femminile. Secondo l’indagine Excelsior, nell’ultimo quinquennio questo valore è stato perlopiù stabile (intorno al 18-19%) per poi abbassarsi quest’anno al 16,8%. A fronte di questo fenomeno, tuttavia, si registra un incremento della quota di assunzioni per le quali il genere non fa differenza: dal 48,5% del 2010 al 52,8% dell’anno in corso. Tuttavia, il risultato netto non è un’accresciuta discriminazione verso le donne in cerca di lavoro quanto, semmai, un ampliamento delle opportunità loro offerte dal mercato del lavoro.


 
Un miglioramento che si traduce in scenari molto diversi alla luce dei settori in cui operano le imprese. La rincorsa alla parità nelle opportunità di assunzione, infatti, è più evidente nei servizi rispetto all’industria. In termini relativi, nel settore secondario l’incremento della quota di assunzioni indifferenti tra 2010 e 2014 è stato di 2,5 punti percentuali (da 27,6 a 30,1%), mentre nel terziario è stato di 3,2 punti (da 60,1 a 63,3). Nel complesso ciò significa che, sommando la preferenza esplicita verso l’assunzione di una donna alla quota di “indifferenza” verso il genere del candidato, quest’anno le donne potrebbero avere l’83,4% di possibilità di aggiudicarsi un’assunzione in un’impresa dei servizi e il 39,5% in una dell’industria (a fronte di valori massimi per gli uomini pari, rispettivamente, a 79,9 e 90,6%). 
Dal punto di vista delle professioni, la figura professionale per cui la parità appare pienamente realizzata è il docente universitario, con il 100% di indifferenza dichiarata dalle imprese interessate ad assumere persone con questo profilo.


A seguire (al di sopra della soglia del 90% di indifferenza dichiarata), si collocano il personale non qualificato nei servizi ricreativi e culturali, gli impiegati addetti agli sportelli e a maneggiare denaro, gli assistenti di viaggio. Tra le professioni per cui l’indifferenza tra candidati uomini e donne supera la soglia dell’80% - al netto di sorprese come i conduttori di convogli ferroviari e altri manovratori (86,6%) - si ritrovano soprattutto profili di elevata qualificazione scientifica e tecnica e, non ultimi (con l’85,5%), i responsabili di piccole aziende.  


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