Un confronto tra management italiano e straniero.
Alcune aziende adesso li importano.
Eppure non sono così scarsi...
E’ vero, qualcuno lo sta facendo.
Ma la maggiore differenza sta nella diversità dei contesti.
Quello italiano è un contesto che frena notevolmente la capacità di fare impresa e quindi di svolgere al meglio il proprio lavoro da manager.
Non dimentichiamo che questo Paese ha una burocrazia elevatissima, che pone freni incredibili alla possibilità di fare impresa, ha livelli fiscali sulle attività produttive che sono insostenibili, ha una imposizione sul lavoro (il cuneo fiscale) tra le più alte d’Europa.
Questa visione di contesto penalizza e differenzia molto l’attività del manager in Italia rispetto a quella di un manager all’estero.
E’ tanto vero questo, che i nostri manager fuori dal contesto nazionale ottengono successi e sono notevolmente apprezzati, per le loro capacità di relazionarsi, empatiche e di saper fare squadra, oltre che per la capacità di adattarsi in modo più veloce a modelli regolamentati in modo più rigoroso.
Quali sono i fattori chiave per il management del 2014?
Uno è sicuramente l’esprimere maggiore curiosità.
Che significa quotidianamente indagare, analizzare i nuovi contesti, i nuovi mercati, e saper produrre da queste analisi orientamenti e linee guida che possano portare il sistema produttivo italiano a rimettere al centro del contesto quelle che sono le reali esigenze dei consumatori e dei clienti.
Soggetti che consumano prodotti o fruiscono di servizi pubblici o privati.
Soprattutto soggetti che oggi hanno un elevato livello di informazione e di conoscenza, che possono avere una visione molto critica rispetto ai prodotti e ai servizi stessi.
Quindi non si può più imporre al consumatore il prodotto di un’azienda, in qualsiasi mercato.
Oggi un’azienda per tornare ad avere un’opportunità di successo deve impostare le proprie visioni e strategie – che si tratti di prodotti, di servizi, ma anche di fattori normativi o legislativi – per porre al centro di tutte le attenzioni il consumatore e il cittadino.
Oggi i consumatori hanno la possibilità di connettersi con il mondo, di fare confronti su qualsiasi prodotto o servizio.
Sono loro nella condizione di poter imporre alle aziende e alle organizzazioni della politica delle soluzioni che corrispondano alle loro reali esigenze.
E quindi web e social media aumenteranno sempre più il loro peso...
Hanno già un peso enorme.
Sono il veicolo attraverso il quale sono aumentati i livelli di conoscenza e le capacità di analisi e di critica, da parte di chiunque sia in grado di avere davanti un tablet, uno smartphone o un Pc, per poter fare dei confronti.
Per il manager è più utile il confronto diretto con il mercato e i suoi colleghi o internet li ha resi obsoleti?
Io credo che siano necessari entrambi i confronti: quello diretto, che rimane fondamentale; ma anche un confronto su cosa fa il resto del mondo penso sia assolutamente necessario.
Perché senza un’informazione completa, senza avere dei riferimenti su come si muovono le attività, i business, i bisogni delle persone, senza conoscere le specificità di un mercato talmente ampio e diversificato, non si va da nessuna parte.
Se si vuol mirare una strategia, bisogna avere un livello di conoscenza importante, per poter colpire in modo preciso la soddisfazione dei bisogni di quel target specifico, che va individuato e localizzato, per potersi riferire e relazionare - in termini di marketing e di comunicazione – per offrire prodotti che soddisfino i suoi desideri.
PMI e management: un rapporto difficile che migliorerà con l’incremento forzato dell’export?
Anche questa è una riflessione che rientra nel contesto di riferimento, che in qualche modo condiziona il comportamento dei manager italiani.
Il nostro sistema produttivo è fondamentalmente basato su imprese medio-piccole con una governance di tipo familiare.
Tutto questo impedisce la necessaria coniugazione tra capacità imprenditoriali e capacità manageriali.
L’imprenditore fa il manager e quando richiede questa figura al di fuori della sua cerchia, è una figura di fiducia, cioè un soggetto che non ha la responsabilità di obiettivi, ma soltanto un rapporto fiduciario con la proprietà.
Al contrario, le nostre Pmi per poter affrontare in modo completamente differente l’internazionalizzazione e la necessità di rivolgersi a una miriade di mercati, dovrebbero comprendere che è essenziale coniugare le capacità imprenditoriali (che sono eccelse in Italia, con casi veramente importanti), con l’indispensabile capacità manageriale.
Laddove imprenditori illuminati hanno seguito questa strategia - passando da un modello di governance familiare a un modello manageriale, assegnando precisi obiettivi, compiti e responsabilità – i risultati economici, in tutte le loro sfaccettature, hanno differenziali positivi, sia in termini di vendite sia a livelli occupazionale e di redditività, notevolmente differenti rispetto al resto delle imprese a governance familiare.
In questo contesto, quanto aiuta il cambio generazionale?
Aiuta se è un cambio programmato.
Il ricambio generazionale è un processo che deve partire da lontano.
Occorrono programmazione, iter formativi, costruzione di esperienze diversificate.
Anche laddove, se programmato, si rimane all’interno della famiglia, comunque ci sono risultati importanti.
Nel caso in cui il ricambio generazionale venga attivato nel momento in cui da parte del “capofamiglia” non c’è più la possibilità di dedicare il tempo necessario, gran parte di queste aziende sono destinate a chiudere in tempi molto brevi.
Il 2013 si è chiuso con un’ulteriore disponibilità di figure manageriali sul mercato, causa licenziamenti.
Come legge questa fase Manageritalia e come la affronta?
Noi la leggiamo come un messaggio molto pericoloso.
Negli ultimi 7 anni, ogni anno escono dal sistema delle aziende circa 10mila dirigenti, sia nell’industria sia nel terziario.
Numeri imponenti che, secondo noi, sono davvero uno sciupio enorme di un patrimonio culturale che potrebbe essere molto utile al Paese.
Avere tanta competenza, tanta conoscenza, tanta storia (anche di successo) di professione alle spalle non utilizzata.
Già si deve scontare un gap di presenza manageriale rispetto ad altri paesi d’Europa: in Italia la presenza dei manager è di uno ogni 100 lavoratori, In Francia e Germania sono 3, addirittura in UK superiamo il 6%.
Manageritalia sta affrontando questa emergenza lavorando principalmente sulla costruzione, d’intesa con le nostre controparti, di politiche attive che possano dare modo a questi nostri colleghi di riadeguare le proprie competenze, seguire un iter formativo, che possa portarli nel breve termine a trovare un’opportunità di ricollocazione.
Abbiamo fatto partire un progetto importante, ManagerAttivo, finanziato sia dai dirigenti, sia dalle imprese: nella nostra business school attiviamo un progetto semestrale che parte dall’analisi e dalla verifica delle competenze, passa per l’individuazione delle necessità per colmare gap di formazione, fino ad arrivare alla certificazione di queste competenze.
Successivamente ai manager vengono affiancate delle guide e si sceglie un obiettivo che possa riportare la loro attività in un rapporto di dipendenza.
In altri casi i manager scelgono di mettere a patrimonio le competenze passate, cercando di avviarsi verso un progetto imprenditoriale.
Sono partite delle startup importanti, che stanno funzionando.
Anzi, se volessimo fare un confronto tra le startup di giovani che fanno partire queste attività sulla base di qualche idea imprenditoriale e queste startup avviate da manager usciti dal sistema produttivo (ma con un passato esperienziale alle spalle, quindi con competenze già agite), io credo che i prerequisiti di durata nel tempo siano nettamente a vantaggio di queste ultime.
Manageritalia come vede il mondo del lavoro in Italia nel 2014?
Noi abbiamo un’architettura contrattuale molto ampia.
Io credo che Manageritalia in oltre 60 anni di storia abbia costruito un vero modello di flexsecurity, nel senso che il nostro modello contrattuale è davvero di riferimento.
Spazia da politiche di welfare e di workfare (politiche attive), a una serie di servizi che ne sono il giusto completamento e sostegno.
Credo che questo modello possa essere un riferimento importante per il Paese.
Anche se volessimo fare un confronto con il welfare pubblico: oggi per le politiche per il lavoro lo Stato spende circa 27 miliardi di euro.
Di questi, ben 23 sono destinati alle politiche passive e solo 4 alle politiche attive e addirittura meno di un milione è destinato ai servizi per il lavoro.
In altri Paesi questa composizione è nettamente ribaltata.
Se solo volessimo far riferimento alla Germania post-caduta Muro di Berlino, quando il Paese era la Cenerentola d’Europa.
Il problema l’ha risolto proprio ribaltando le percentuali che oggi abbiamo noi: diminuendo notevolmente le politiche passive, incrementando in modo sostanzioso le politiche attive ma, soprattutto, incrementando i servizi per l’impresa, che sono il giusto connettore per mettere in relazione le imprese, i lavoratori, l’università e la scuola, in modo da rendere tutto coerente.
Soprattutto il matching tra domanda e offerta di lavoro, in funzione delle reali necessità e degli obiettivi a medio e lungo termine delle imprese.
Questo, e la creazione di migliaia di mini-jobs, ha messo in condizione la Germania di recuperare il primo posto in Europa, portando il tasso di disoccupazione ai minimi storici e mettendo le imprese in grado di recuperare produttività e livelli occupazionali.
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