L'Oro non mente: benvenuti nell'economia di guerra
Fino a poco tempo fa, il nostro vocabolario economico era dominato da un'espressione: "economia dell'incertezza".
Navigavamo a vista tra le scorie della pandemia, l'inflazione galoppante e le acrobazie delle banche centrali. Poi è arrivata la prima turbolenza con la guerra Russia-Ucraina e infine i dazi ballerini di Trump.
Oggi, quella nebbia si è dissolta per rivelare un orizzonte ben più crudo e definito: non siamo più nell'incertezza, siamo entrati nell'economia di guerra.
A certificarlo, più di ogni analisi, è un indicatore antico quanto la civiltà stessa: l'oro. Le sue quotazioni hanno spiccato il volo, raggiungendo record storici non per un capriccio dei mercati, ma come termometro della paura globale. Il metallo giallo non è più solo una barriera contro la svalutazione monetaria, ma è tornato al suo ruolo primordiale: il bene rifugio per eccellenza, l'asset di ultima istanza in un mondo che riscopre la logica spietata della geopolitica.
I conflitti aperti, dall'Ucraina al Medio Oriente, e le crescenti tensioni tra blocchi di potere hanno cambiato le regole del gioco. La globalizzazione cooperativa lascia il passo alla competizione strategica, alla sicurezza nazionale e alla corsa agli armamenti. In questo scenario, la fiducia nella carta moneta e negli accordi internazionali vacilla.
Non a caso, a guidare la corsa all'acquisto non sono solo i piccoli risparmiatori, ma soprattutto le banche centrali dei Paesi non allineati. La loro incetta di lingotti è una chiara mossa di diversificazione dal dollaro e di sfiducia verso l'ordine costituito.
La corsa dell'oro, dunque, non è un rally per speculatori. È il segnale luminoso che ci avverte che la stabilità è diventata un lusso e la pace non è più un dividendo economico scontato. Il suo prezzo è la febbre di un sistema globale che ha smesso di credere nelle promesse e ha ricominciato a pesare i lingotti.