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16/02/2022

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Marco Fanizzi (Commvault): oggi la spinta all'innovazione parte dal basso ed è cambiato il modo di fare impresa

La pandemia ha modificato il modo di pensare al business, con vantaggi e svantaggi. Stiamo mettendo in secondo piano la capacità di analisi a vantaggio della velocità. E i nativi digitali stanno reinventando il modo di fare business

Con la pandemia il mondo è cambiato. Il modo di fare impresa è cambiato, così come il rapporto tra azienda e consumatori, azienda e dipendenti, oltre che la pervasività della tecnologia nelle nostro vite, con tutto ciò che ne consegue. Ne abbiamo parlato con Marco Fanizzi, Vice President Sales e General Manager EMEA di Commvault.



Cosa sta succedendo alle imprese a livello internazionale e che cosa ha portato la pandemia in tema di innovazione?


E' una domanda cui si può rispondere da vari punti di vista. Da circa due anni mi occupo del mercato EMEA (Europa, Medio Oriente e Africa), quindi  ho la possibilità di vedere cose, velocità e situazioni diverse.
Se parliamo in particolare dell'Italia, certamente la pandemia ha spinto le aziende ad accelerare i processi di digitalizzazione, spinte dalla necessità di rendere i propri collaboratori produttivi anche in una situazione complessa e inattesa. La maggior parte si è subito attivata in una logica di remote working
Faccio questa distinzione tra remote working e smart working non a caso.

Secondo me, se da una parte c'è stata una grande accelerazione, dell'altra, dopo due anni,  siamo ancora in una situazione in cui la maggior parte delle aziende ha attivato dei processi di remote working, ma sono molto poche quelle che invece hanno adottao un reale smartworking.
E' stata una spinta in cui la tecnologia ha aiutato tantissimo, però non sempre è stata affiancata da processi interni aziendali che abbiano fatto leverage sulla tecnologia e la situazione. Penso che ci si debba focalizzare sul ridisegnare i processi, dal recruitment delle persone all'hiring delle stesse, dallo sviluppo interno delle carriere fino al coaching e learning interno ed esterno verso i clienti. Sono numerose le opportunità emerse da questa situazione, che speriamo non duri per sempre, ma che comunque ci ha insegnato molte cose. Per esempio, ci ha mostrato che possiamo operare meglio di come facevamo prima, utilizzare il nostro tempo in modo più efficace e parallelamente cercare di migliorare la qualità della nostra vita. Il rischio è che, una volta finita la pandemia, si finisca per tornarein una situazione dove poco è cambiato rispetto al passato.



C'è anche un altro cambiamento che possiamo vedere: i consumatori oggi sono sempre più connessi e questo ovviamente impatta sul business delle aziende.


Impatta certamente, perché il processo che le aziende hanno adottato in questo momento prevede un'operatività 24/7 con dei Service Level Agreement (che non sono più solo rivolti solo ai clienti ma anche all'interno) che sono completamente cambiati. Quindi diciamo che il modo di fare azienda e quello di fare informatica in azienda sono sicuramente cambiati.
Anche qui, ci sono vantaggi e svantaggi.
La sensazione è che, soprattutto all'inizio, ci sia stato un aumento della produttività perché le persone in qualche modo avevano ridotto i tempi morti e quindi condensato la parte attiva. Anche il fatto di operare in una situazione da remoto ha fatto sì che le persone, costantemente connesse, abbiano dato un'accelerazione generale al business e alla produttività dell'azienda nel suo complesso.
Ci sono però degli svantaggi che secondo me vanno ugualmente analizzati.


Come tutti, capita di avere molte cose da fare, in tempi ravvicinati, e di non avere la concentrazione di prima.
Chiaramente la qualità di quello che facciamo probabilmente non ne giova, e anche il contesto non sta aiutando alcune attività specifiche. Manca la parte di analisi: siamo abituati ormai a "deliverare" e a volere un feedback il prima possibile. Questo è il modo in cui il mondo del social ci ha abituato ad agire e quindi quando compiamo un compito specifico ci aspettiamo di avere un riscontro pressoché immediato.
Il problema è che stiamo perdendo la cultura di costruire quello che facciamo, quello che postiamo,  che deliveriamo (scusate ancora l'anglicismo), che rilasciamo come frutto del nostro lavoro. Stiamo perdendo ancora un po' la capacità di analisi - e noi italiani ne abbiamo sempre avuta molto poca perché siamo orientati a fare, più che a pensare, motivo per cui perché reagiamo bene nei momenti difficili - e questo sta influendo sulla qualità del lavoro delle persone.

Vero, però anche in questo periodo c'è anche una spinta dal basso verso l'innovazione: non è più l'azienda che la spinge e la porta sul mercato, ma è la domanda che la promuove.




Tutto è nato con la grande diffusione degli smartphone: da quel momento in poi tutto è cambiato. Prima, se si voleva fare una stampa a colori ci si recava in azienda, adesso si fa da casa - per riassumere quello che è successo in questi anni. E' vero, c'è una grandissima spinta dal basso grazie ai nativi digitali e soprattutto al fatto che questi individui sono entrati nel mondo del lavoro. Oggi, abbiamo un gruppo di persone che va dai 20 ai 30 anni, o dai 30 ai 40 anni, che sta reinventando il modo di fare business.
Pensiamo a tutte queste startup basate sulla capacità di fruire del digitale e di sfruttarlo in qualsiasi ambito: dalla geolocalizzazione, alla capacità di creare video o situazioni virtuali in rete, alla possibilità di effettuare analisi sui big data e di avere outcome e input al fine di programmare al meglio  il futuro. Tutti questi fattori, uniti al talento e all'ondata di giovani che in questo momento ha assunto la responsabilità di sviluppare startup innovative, stanno guidando la trasformazione con un forte impatto sul mondo del lavoro, che a lungo andare gioverà alle aziende.


Questo anche perché le organizzazioni in questo momento fanno fatica ad assumere persone di talento giovani per continuare il ciclo virtuoso emerso in precedenza. Per attirare persone di talento occorre che l'azienda abbia una strategia ben definita, con obiettivi a breve, medio e lungo termine chiari, in linea anche con la spinta alla sostenibilità evidente in questo momento. Questo tipo di trasformazione all'interno delle grandi aziende è molto più difficile perché servono tempi più lunghi. Diciamo che non è solamente il consumatore che sta spingendo, ma è l'unione di consumatori che sono diventati aziende, seppur piccole (magari qualcuna già grande), che sta modificando gradualmente, ma radicalmente, il mondo del lavoro.

Le aziende stanno diventando sempre più data driven. Il dato però deve essere un dato "buono" e deve avere un valore intrinseco per creare valore ulteriore ed esser sicuro.


Questo è sempre l'amletico dubbio della gestione dei dati, soprattutto per chi si occupa di sicurezza e anche per chi deve sfruttarne l'utilizzo. Si tratta di un trend presente da circa 15 anni ormai, che ha messo in primo piano la cultura del dato e la sua importanza.



E' stato un processo graduale. Si è passati prima attraverso normative che hanno imposto che i dati dovevano essere preservati, soprattutto quelli sensibili. Poi sono arrivati i social che hanno prodotto dati non solo strutturati ma anche destrutturati. Infine sono arrivati big data e analytics. Questi ultimi hanno dato l'opportunità di guardare questi informazioni in modo realmente olistico, creando un grande basket in maniera anonimizzata da cui è possibile estrapolare dei trend, sui quali creare dei business model, e su questi sviluppare degli aspetti competitivi.
L'esplosione dei dati ha creato problematiche che il cloud sta risolvendo, perché sicuramente l'approccio cloud - e intendiamo il cloud non come posto in cui risiedono le informazioni, ma come modello operativo - ha fatto in modo che si potesse gestire questa immensa mole di dati in una maniera diversa e soprattutto senza avere problematiche di costo e gestione attraverso l'utilizzo di piattaforme multi cloud.
E' chiaro però che, se i dati stanno diventando la nuova moneta del futuro anche i nuovi ladri sono informatici, che utilizzano ogni tecnica per usufruirne e fare in modo di monetizzarli in maniera malevola.


 
I grandi problemi che abbiamo sono due: il primo è che internet non è una nazione, non ha confini, e quindi le regulation che possono valere in una nazione non valgono in un'altra. Siamo così costretti a difenderci da situazioni provenienti da paesi in cui questa normativa non c'è, dove non c'è lo stesso controllo del territorio che può esserci per esempio in Italia. La nostra polizia postale è molto attiva e fa un grandissimo lavoro; il problema è che, per quanto possa collaborare con le altre autorità, ci sono situazioni in cui questo non avviene.
L'altra problematica molto grande è che si ci può proteggere ad alto livello, ma non si può chiudere tutto, perché se la protezione diventa chiusura si finisce di fare business. La sicurezza deve diventare sì un modo di proteggere le informazioni, mantenendone però l'accessibilità e la velocità che ci serve. Deve anche un ruolo di "enabler" più che di barriera, come i vecchi firewall di una volta che proteggevano i nostri data center. 



C'è quindi più attenzione al dato che entra in azienda, ma una maggior consapevolezza che questo va gestito nei modi giusti.


Un cambiamento culturale.

C'è una maggiore attenzione da parte delle aziende nell'acquisire i dati e nel gestirli, nella capacità di metterli a disposizione della propria infrastruttura e delle proprie persone, ma anche a costruire modelli operativi che li aiutino a sfruttarli, sempre nell'egida delle regole e dell'agreement che hanno con i loro clienti. Però occorre fare di questi dati dei punti di valore.
Per esempio, società che si occupavano di geolocalizzazione per un determinato motivo, adesso riescono a utilizzare queste informazioni per moltiplicare i loro profitti e anche a rientrare dagli investimenti importanti effettuati inizialmente. Quindi sicuramente c'è molta più attenzione.
Voglio ribadire l'opportunità che abbiamo, soprattutto in Italia, di vedere non solo il privato, in particolare per quanto riguarda il nostro terziario che è assolutamente attento a questi aspetti e ne ha fatto un punto di forza da sempre; ma anche la nostra Pubblica Amministrazione che dovrebbe aver imparato bene che cosa vuol dire creare delle reti interconnesse che si parlino tra di loro, si scambiano i dati.


Un esempio è la Pubblica Amministrazione Centrale e quella parte che si occupa di sanità, che è stata quella più impegnata in questi due anni. Sono fiducioso che siano stati elaborati piani industriali per fare in modo di valorizzare al meglio le grandi moli di dati possedute dalle varie organizzazioni.

Il ransomware è un problema globale. Qual è la sua visione?


Purtroppo stiamo assistendo a una continua escalation perché, semplicemente, il ransomware è un modo efficace di fare soldi.
C'è poco da fare, purtroppo è paragonabile - il termine inglese lo dice - alla presa di un ostaggio, in questo caso rappresentato dai dati. Ricordiamoci che non troppi anni fa in Italia questa modalità veniva applicata alle persone. E' particolarmente interessante la modalità con cui soggetti anche molto strutturati entrano in maniera malevola nei data center nei clienti, perché in realtà da tutte le analisi sul ransomware è emerso che l'accesso è avvenuto dai 3 ai 6 mesi precedenti l'attivazione. Si tratta di un tempo utile per lanciare un attacco di successo, perché occorre bloccare tutte le possibilità di recupero dei dati delle aziende.


E si tratta di un'attività che purtroppo si sta rivelando di successo, motivo per cui si verifica un contino incremento del fenomeno. Particolare attenzione va dedicata a quelle organizzazioni che gestiscono servizi importanti anche in ambito pubblico. E' chiaro a tutti che un attacco all'infrastruttura portante della nazione potrebbe creare enormi disagi. Pensiamo alle aziende che gestiscono la distribuzione dell'energia elettrica oppure dell'acqua. Servono attenzione e risorse economiche per mettersi al sicuro in modo adeguato. Noi abbiamo soluzioni che ci permettono di fare un "detach" dei dati e di mettere i principali al sicuro, quelli su cui si fa core business, ma non è l'unica. La soluzione per il ransomware non può essere singola: ci sono una serie di iniziative che le aziende stanno intraprendendo, che vanno dagli aspetti di sicurezza a quelli di processo, alla capacità di sapere cosa fare nel momento in cui si scopre che sta accadendo qualcosa, coprendo quindi tutta la parte di processo a valle dell'evento.
E' un processo per sua natura complesso, che implica anche scelte di fondo che alcune aziende stanno man mano considerando.



Questo sta spingendo anche l'adozione di soluzioni multi cloud, che però non risolvono di per sè il problema. Sappiamo bene, perché lo abbiamo visto sui giornali. che anche data center blasonati hanno affrontato problematiche non da poco. Spostare il problema non lo risolve di certo, magari permette di avere una sorta di assicurazione che consente di sopravvivere e non avere problemi enormi. Ci sono stati in passato casi eclatanti.
Forse l'esempio più noto è quello di Sony. Anni fa, l'azienda è stata ferma quasi sei mesi perché colpita da un data breach che aveva portato alla sottrazione di film non ancora distribuiti in rete, con il risultato che alla fine  ha perso milioni di dollari, con non pochi problemi a livello di valore di borsa. Quindi questo purtroppo è lo scotto che dobbiamo pagare per questa digitalizzazione spinta, ma è l'unico modo che abbiamo per gestire le cose in maniera diversa per dare a tutti, ormai sette miliardi e mezzo di persone, la possibilità di avere lo stesso accesso a informazioni, rete e servizi, qui come nei Paesi meno avanzati e industrializzati, che comunque stanno correndo verso l'innovazione e  il futuro.


E' l'unico modo che abbiamo per dare accesso a tutti i servizi essenziali su cui si basa la nostra cultura e la nostra società.


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