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10/03/2021

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Mariano Bella (Confcommercio): Italia meno competitiva ma pronta per la ripresa (con le riforme)

I dati relativi agli ultimi anni mostrano una fotografia impietosa di un Paese fermo. Ma il futuro, potrebbe essere roseo con il Next Generation EU

Cosa è emerso da questo studio di 10 anni sull'economia italiana?

Abbiamo considerato più di 10 anni, ma consideriamo gli ultimi dieci anni di demografia d'impresa nei centri storici per praticità. Demografia d'impresa vuol dire il tessuto produttivo, cioè tre grandi elementi economici: commercio fisico, con sede fissa e ambulante e poi alberghi, bar e ristoranti. Abbiamo provato a fare la distinzione tra centro storico e non perché le dinamiche possono essere differenti, i problemi possono essere differenti. In generale, dal 2012 al 2020 abbiamo perso circa 77 mila negozi del commercio in sede fissa, a cui si aggiungono 14.000 ambulanti, mentre sono cresciuti di 27.000 unità gli alberghi, i bar e i ristoranti.
Tutto questo fino alla metà del 2020. Quella che viviamo è una situazione di ibernazione dell'economia e quindi i dati del 2020 non rispecchiano la realtà. Mi spiego: l'impresa è morta ma noi abbiamo fatto il funerale!
Cioè è chiusa, per esempio un bar o un ristorante, ma non è stata ancora cancellata dai registri camerali perché gli imprenditori hanno il divieto di licenziamento, hanno la cassa integrazione estesa e si attendono magari anche qualche ristoro o qualche sussidio, qualche sostegno.


Quindi per adesso i numeri dei registri camerali non rendono conto di quello che è successo, ma il 2020 è importante soprattutto per le città e i centri storici. Voglio aggiungere una cosa: è tanto vero quello che stiamo dicendo che se guardo le chiusure verificate nel 2020, queste sono eccezionalmente esigue rispetto al passato, e se qualcuno guardasse i dati senza tenere conto della situazione potrebbe pensare che il 2020 per l'Italia è stato un anno di boom economico. Infatti, di solito mediamente chiudono a 350mila imprese, quest'anno hanno chiuso meno di 310mila.

Un problema che coinvolge il sistema produttivo.

Assolutamente. Il congelamento, in termini di grandi numeri, ha prodotto una serie di conseguenze. Ma l'altro aspetto da sottolineare è che fino a prima del 2020 avevamo il problema della riduzione di tessuto produttivo dentro i centri storici, ma questa riduzione era in un certo senso compensata dalla crescita di alberghi, bar e ristoranti perché, c'è poco da fare, l'Italia è un Paese che vive di filiera turistica, di socialità, di convivialità, di divertimento e di svago.

E' in settore importante non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista dei dati della bilancia dei pagamenti.
Le nostre esportazioni, anche se questo non si dice sempre e si fa un po' di confusione, sono in larga parte fatte di esportazioni di servizi e quando un turista straniero compra un caffè a Trastevere, quelle sono esportazioni di servizi. Ma alla voce servizi della bilancia dei pagamenti non compare e abbiamo un'algebra incerta della compensazione.
Nei centri storici ci sono meno negozi e più ristoranti, più bar e più alberghi, ma con la pandemia c'è un grande punto interrogativo. Rischiamo di avere due segni meno, cioè meno negozi e ora vedremo meno luoghi di socialità. Però dobbiamo dirlo con la massima sincerità e con la massima franchezza: nel 2019 ci ponevamo dei punti interrogativi sull'equilibrio instabile tra i centri storici delle città italiane che si trasformano in una sorta di luna park, con sempre meno negozi e meno residenti ma sempre più turisti. Se non ci sono residenti e se non ci sono negozi, finirà che diventa meno le attrattive anche per i turisti.

Queste erano le nostre fatiche intellettuali fino al 2019, ora invece abbiamo una più situazione più semplice perché tutte le perdite di consumi sono tutte evidenti. l'ha certificato l'Istat, qualche giorno fa, riguardano la filiera turistica.
Rischiamo veramente di perdere in termini di vivibilità perché poi nei centri storici abbiamo anche le nostre case, abbiamo i nostri asset immobiliari e senza vivibilità avremo una situazione anche di riduzione del valore degli immobili.

Ma i centri storici sono moribondi?

Non voglio dare una visione del commercio e delle nostre città come di soggetti moribondi perché non è così. I nostri dati ci dicono che alla fine il commercio è un organismo vitale, si comporta come un organismo vivente perché si adatta. Quando può, riesce ad essere aggressivo per espandersi e insieme la fase produttiva, altrimenti si adatta, si specializza, si reinventa. Forse lo fa con una certa lentezza, si differenzia, diciamo agisce, come un organismo vivente però si deve comunque adattare alle condizioni del mercato.




Dalla ricerca, chi sta soffrendo di più?

Se guardiamo le categorie di commercio specifiche, abbiamo un gruppo dei resilienti che sopravvivano bene, come alimentari, tabacchi, che definirei come centri servizi, poi farmacie o le attività di vendita di computer e telefonia. Sono attività che si sono anche adattate al cambiamento, penso ai tabaccaio o alle farmacie che hanno trasformato parte del loro business nel tempo. Ma sappiamo tutti che se dico mobili, ferramenta, libri, giocattoli, vestiario, calzature e carburanti sto raccontando l'Italia che fatica e che nei centri storici non c'è più. Si sono spostati all'esterno delle città, nei centri commerciali quando va bene, ma è un'avventura ricca di sfide che richiede anche un cambiamento di governance e un cambiamento anche del modo di fare impresa. Stiamo parlando di settori che fanno tra meno 20 e meno 30 per cento! La pandemia ha acuito, anche in parte casualmente, un trend che c'era già prima e il futuro è particolarmente fosco. Le perdite di fatturato di questi negozi sono talmente forti che molti non riusciranno a sopravvivere comunque siano i livelli dei ristori.




Per il commercio ambulante cosa avete notato?

Negli ultimi 10 anni ha perso quasi il 20 per cento, le cause sono la razionalizzazione delle licenze che ha cambiato gli scenari, spesso incomprensibilmente come in alcune città del sud.

E poi c'è l'eCommerce.

Per la riduzione del tessuto produttivo commerciale dentro le nostre città le cause sono tante, ma qualcuno un po' frettolosamente ce se la prende con un nemico abbastanza facile da identificare ma che, se si guarda con attenzione, non credo che sia veramente nemico: la crescita del commercio elettronico.
Effettivamente è passato da 5 a 31 miliardi e mezzo nel 2019, è leggermente sceso nel 2020 leggendo i dati dell'Istat. Eppure si parla di boom. La risposta è semplice: ci si riferisce al commercio di beni e non dei servizi. Infatti, se si guardano i dati del Politecnico di Torino, emerge che in termini reali nel 2020 rispetto al 2019 c'è una perdita del 3% dovuta al crollo dei servizi, la bigliettazione, i viaggi, ecc.. I negozianti devono farsi ancora più furbi e anche i piccoli negozi si devono rendere conto che quando sarà ripristinato tutto quanto, con condizioni sanitarie e socio economiche di normalità, il commercio elettronico recupererà sul fronte dei servizi, ma non cederà sul fronte dei beni.


Quello che guadagnato nel 2020 resterà per i prossimi anni e se non si trovano via diverse, saranno anni ancora più difficili rispetto al passato. Abbiamo fatto tantissime analisi di tipo econometrico e statistico e abbiamo visto che il commercio elettronico prospera di più dove i territori sono più dinamici dal punto di vista dei consumi, del PIL e quindi le "cose vanno insieme". Quando si parla di omnicanalità, di complementarità, non si sta dicendo una banalità.
L'eCommerce ha contribuito all'eliminazione di piccoli negozi, ma si tratta di elementi marginali che non avevano gli economics solidi per mantenersi. Oggi tutti dovrebbero farsi il proprio portalino per vendere e sfruttare l'omnicanalità, puntare sulle competenze e servizi, sulla qualità e la cortesia. Il modello di business oggi deve tenere conto del commercio elettronico, non è una banalità, semplicemente perché non c'è un piano B.

Da tanti anni l'Italia è ferma nelle sue posizioni e perde terreno verso gli altri Paesi europei.

E' vero, da vent'anni l'Italia non funziona e noi non possiamo pretendere la prosperità del Paese e del commercio.


Cito un solo numero: tra il 2001 e il 2019 il nostro prodotto pro-capite in termini reali, quindi quanto produciamo a testa, è diminuito del 3,7 per cento. Non stiamo parlando della pandemia, ma prima della pandemia. Nell'eurozona è cresciuto del 15,7 per cento!
C'è un problema italiano ed è inutile prendersela con la globalizzazione, l'euro, l'Europa o i massimi sistemi. C'è un problema colossale ed evidente, che solo chi non lo vuole vedere non lo vede.

Ma come si può fare a rilanciare il commercio e l'economia del Paese?

Se vogliamo rilanciare il commercio dobbiamo pensare a cose più generali, dobbiamo pensare ad aggiustare i mali endemici del nostro Paese. Penso alla micro criminalità nel sud, la giustizia che non funziona, la burocrazia, lo scarso capitale umano, la scarsa accessibilità anche nella gestione delle nostre città. Questi sono in sostanza i temi di cui si parla da vent'anni, forse da 30, che sinteticamente chiamiamo riforme strutturali e che l'Europa, guarda caso, ci chiede da sempre e sono al centro del Next Generation EU.



Sono riforme che dovevamo fare a cavallo dell'ingresso nell'euro e che quindi sono ferme da troppo tempo. Non facciamo niente di sistemico e quindi la cosa assurda quest'anno ti trovi in difficoltà ma proponi le vecchie ricette mentre il mondo è cambiato, l'economia è cambiata e le esigenze sono cambiate.

Poniamo il caso che coi vaccini la pandemia finisca, cosa dovremmo fare?

Non si tornerà a una situazione precedente perché alcuni aspetti come l'eCommerce o lo smartworking resteranno, solo per fare un esempio. Mi auguro, ma sono ottimista, che se facciamo le riforme il commercio cambierà, ma è abituato a cambiare. Gli imprenditori italiani non sono secondi a nessuno e se il contesto sarà migliore, siamo ottimisti. Io faccio l'economista, non do consigli agli imprenditori ma se si faranno delle riforme serie, e non ci sarà un eccesso di leggi, normative e regolamenti, con il contributo delle varie parti sociali e non distruggiamo come nostro costume tutto quanto, ci sarà un tessuto imprenditoriale che saprà cogliere le opportunità. Magari meno mense, ma le persone continueranno a mangiare, si svilupperanno nuovi servizi di delivery, chi lo sa.


Non possiamo venire bloccati dalla burocrazia e lo stato non può invadere quotidianamente le attività. Se non facciamo le riforme, continueremo nel declino che non è solo un declino economico e ma anche politico perché abbiamo perso moltissimo peso in Europa perché se perdi il PIL conti meno. Pensiamo ai porti, ne nascono di enormi in quello che chiamavamo il Mare Nostrum, mentre i nostri languono dietro a campanilismi assurdi. Gli italiani e gli imprenditori italiani si adattano a tutto, da sempre, la l'Italia non ci riesce. Questo è il problema da risolvere.


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