Si è ammalata la globalizzazione?
Il virus ha mostrato con chiarezza che le produzioni europee dipendono dalla Cina: un modello che forse non sarà più sostenibile e potrebbe trainare il back reshoring e rilanciare i distretti
Se c'è una lezione che il virus ci ha insegnato è che il mondo interconnesso e globalizzato in cui viviamo non è perfetto. Intorno al 20 febbraio, quando la Cina annunciava la ripresa delle attività produttive, in realtà - come avvisava la Fondazione Italia-Cina - si palesava una riapertura molto parziale, con al massimo il 20% della forza lavoro sulle linee dei colossi manifatturieri di Stato e la metà in quelle delle industrie private.
Anche se il lockdown non si fosse esteso all'Occidente come purtroppo è avvenuto dopo, era già evidente che la dipendenza europea e italiana dalla Cina come fornitore avrebbe provocato danni alle imprese. Nel documento della Fondazione leggiamo che ''la decisione del governo cinese di estendere la chiusura delle attività dopo le festività del Capodanno e di cancellare le rotte aeree in entrata e uscita dal Paese ha generato un effetto sulla produzione di beni di consumo, beni high-tech e industria tessile dove la Cina gioca un ruolo centrale nelle catene di approvvigionamento. L'interruzione della produzione in questi settori ha un effetto avverso sia sulle commesse per i ritardi e cancellazioni delle consegne sia sulle materie prime, merci e beni intermedi, obbligando le compagnie a trovare fornitori alternativi''.
Le nostre imprese dipendono dalla Cina
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