18/03/2020

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Gli effetti del coronavirus sulla globalizzazione

Secondo un'analisi del Centro Studi di Fondazione Ergo, il Covid-19 diventa globale nelle catene del valore. E molte produzioni potrebbero ritornare in Italia


La recente nota mensile sull'andamento dell'economia italiana pubblicata dall'Istat sintetizza la fase di forte instabilità che sta vivendo il nostro Paese:
- l'ultimo trimestre del 2019 ha mostrato diffusi segni di flessione. Nel quarto trimestre, il prodotto interno lordo ha registrato una variazione congiunturale negativa pari allo 0,3%;
- i dati di gennaio del mercato del lavoro confermano i segnali di contrazione dei livelli di occupazione rilevati a dicembre;
- a febbraio l'inflazione complessiva ha manifestato un nuovo rallentamento;

- l'indicatore anticipatore continua a registrare tassi di crescita negativi, evidenziando che lo scenario a breve termine della nostra economia rimane caratterizzato da prospettive di persistente debolezza.
E' realistico pensare ad una fase di reindustrializzazione dell'Italia?
Al di là dell'emergenza sanitaria, il caso ''Covid-19'' sta imponendo un ripensamento della globalizzazione e dei suoi riflessi economici. Partiamo con un dato: negli ultimi due decenni, la Cina ha aumentato la scala dei valori per diventare il più grande esportatore mondiale di beni intermedi utilizzati per produrre prodotti finali. Ha una quota di un terzo di questo mercato globale. Tali prodotti rappresentano attualmente quasi i due terzi delle esportazioni cinesi. E allora la domanda di fondo è chiara: la Cina sarà ancora la fabbrica del mondo? Detto in termini più sofisticati: andiamo verso catene del valore più corte? In attesa che la risposta maturi soprattutto con l'esito delle presidenziali americane in programma a novembre, è utile riportare le opinioni più significative che stanno emergendo.

La Francia vuole produzioni strategiche, l'Ue vara primi progetti
Il ministro dell'Economia francese, Bruno Le Maire, in una recente intervista televisiva ha sostenuto esplicitamente che il Coronavirus cambierà la globalizzazione e che alcune produzioni strategiche, in particolare quelle legate ai farmaci, devono tornare in Europa.
In una recente intervista, l'ex ministro dell'Economia Giulio Tremonti ha sottolineato che la Cina sta mettendo in evidenza debolezze di sistema (la spaccatura fra aree centrali - dove il virus ha preso piede - e quelle avanzatissime sulla costa) e l'opposizione in Occidente al suo ''momento Sputnik'' ovvero alla diffusione della tecnologia 5G di Huawei.
Va ricordato che già da alcuni mesi la Commissione Europea ha avviato alcuni progetti, gli IPCEI (Important Projects of Common European Interest), con l'obiettivo per esempio di rendere autonoma l'Europa nella produzione di batterie elettriche per auto e più forte nel comparto dell'intelligenza artificiale.

Seguici: 

Uno sguardo alla Cina
Molti osservatori (vedi innumerevoli articoli della rivista Limes) sottolineano che i prossimi anni saranno difficili per l'economia cinese che già prima del coronavirus dava segni di relativo rallentamento e registra un forte indebitamento in dollari di gran parte delle imprese più importanti e dunque non può agire sulla leva della svalutazione. Resta il fatto che il Covid-19 non è destinato a spostare la tendenza demografica globale di fondo, che vede per i prossimi decessi un'espansione della popolazione in Asia e in Africa e in definitiva un aumento del peso economico di queste aree.
Uno spostamento di ordini dalla Cina all'Italia
Avanza il ''reshoring''? Probabile. Il Sole24Ore ha iniziato a registrare il fenomeno di aziende che ''hanno riattivato in Italia codici di produzione finora realizzati in Cina''. Il fenomeno non è isolato ma non è quantificabile soprattutto in termini di durata. Le aziende però segnalano con nettezza che se per alcuni comparti la Cina resta imbattibile (in particolare la componentistica elettronica) in altri la manifattura italiana è tornata in pista.

Gli analisti sono divisi fra chi già intravede nuove leve per una sorta di reindustrializzazione delle filiere italiane e chi pensa che al massimo alcune produzioni si sposteranno in altri paesi asiatici come il Vietnam o l'Indonesia con costo del lavoro più basso di quello cinese.
Il problema emergente è che le economie del sud-est asiatico sono esse stesse fortemente dipendenti dalla Cina per gli input produttivi. Di conseguenza, la strategia di spostare le catene del valore dalla Cina al sud-est asiatico ha un impatto limitato sull'obiettivo finale delle aziende di ridurre il rischio di concentrazione.
Dal Think Thank Brugel (Companies must move supply chains further from China - Alicia Garcia Herrero) emerge che i cambiamenti all'interno delle catene di approvvigionamento sono difficili, ma necessari. I Paesi con forniture sufficientemente ampie di manodopera disponibile, adeguate capacità logistiche e una dipendenza relativamente bassa dalla Cina saranno più interessanti per la creazione di nuovi siti produttivi. Quali? Non a caso negli scorsi anni sono entrati nel mirino delle multinazionali il Messico, la Turchia e i Paesi dell'Est Europa. Si tratta ora di capire se l'Italia potrà rientrare in questa lista.

Definire nuovi profili di politica economica per l'Italia è al momento prematuro ma sembra inevitabile prepararsi a una fase della globalizzazione diversa da quella precedente.
Davvero il Coronavirus accorcerà il mondo e indebolirà la Cina? Difficile. Di certo però la curva della globalizzazione prenderà un'altra direzione.
Interessante in questo scenario quanto affermato da un sindacalista di spessore come Marco Bentivogli, segretario Fim-Cisl, che in una intervista a Il Messaggero ha sottolineato l'esigenza strategica di alcune ''produzioni di prossimità'' e quali l'acciaio, l'automotive e il biomedicale. Sulle quali puntare assieme a meccanismi e tecnologie che migliorino l'organizzazione del lavoro e la sua produttività.



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