E' invece proseguito il calo dei fallimenti, ma a ritmi decisamente meno positivi rispetto a quelli del 2017 (-2,8% contro -19,6%).
Di tutto questo e altro abbiamo parlato con Valerio Momoni, Direttore Marketing e Business development di Cerved Group.
La ripresa del Paese è praticamente ferma all'1%.
Come si declina questo con il mondo delle PMI?
Il mondo delle PMI continua fortunatamente a dare segni di ripresa - in termini di ricavi, di profittabilità e marginalità - rispetto alla crisi e a tutto quello che è successo dopo il 2007.
Quindi continuiamo a vedere debiti finanziari in decrescita.
Nel 2017 c'è anche per le piccole imprese un aumento dell'indebitamento: è un segnale positivo, nel senso che gli imprenditori hanno ricominciato ad investire, e hanno ricominciato non solo - come hanno fatto negli ultimi 10 anni - a immettere proprie risorse nel patrimonio netto, ma a riprendere il credito bancario, che ricomincia ad esser in qualche maniera disponibile.
Almeno per le migliori aziende.
Per le PMI un fattore essenziale è il nodo dei pagamenti.
A che punto siamo?
Se la situazione è positiva, cioè il trend è positivo dal punto di vista del bilancio, per i pagamenti si cominciano a vedere alcuni segnali di stabilizzazione o in controtendenza.
Le aziende hanno pagato in maniera sempre più puntuale, con meno ritardi, nel corso degli ultimi quattro anni.
C'è stato un miglioramento costante.
Per la prima volta però, nel corso del primo semestre del 2018 abbiamo registrato un aumento dei ritardi di pagamento, che sono passati da 10,2 giorni medi di ritardo a quasi 11.
E' ancora un livello accettabile e basso, ma è un primo segnale di cambio di tendenza che ci auguriamo sia solamente di stabilizzazione e non di ricaduta.
Con queste tendenze, esiste un rischio di credito per le PMI?
Distinguiamo.
Dal punto di vista del "credit crunch" diciamo che finalmente negli ultimi 2-3 anni non c'è stato ed è ricominciato ad affluire un po' di credito alle PMI.
Sono però sempre di più quelle che non fanno ricorso al credito bancario e quindi le banche sono molto selettive.
Dal punto di vista del rischio creditizio, questo è in miglioramento, si sta riducendo dai massimi del 2014 in cui la situazione era molto peggiore, quasi cronica.
Siamo però ancora un po' distanti dai livelli pre-crisi.
Per dare un numero: se prima per prestare a 100 aziende mi dovevo aspettare che 1,5 di queste (situazione pre-2007) non mi pagasse, oggi siamo ancora al livello di 3 aziende, che rispetto alle 5 del 2014 è un miglioramento sostanziale.
Il rischio sta quindi diminuendo e noi ci aspettiamo che nei prossimi 2-3 anni diminuisca, torni ai livelli di normalità .
Però assumendo un contesto di rallentamento graduale dell'economia ma senza shock, come spread, recessione, problemi internazionali e cose di questo tipo.
C'è un rapporto tra spread e PMI?
Il rapporto è inverso. Abbiamo provato a stimare che cosa succederebbe alla PMI italiana, stante il suo bilancio oggi e il suo stato di salute, se lo spread e la sua apertura si scaricasse e venisse tradotto in maggior costo del debito per le aziende.
In numeri accadrebbe questo: ogni 100 basis point di crescita (se questo si trasferisse sul costo del debito) metterebbe in difficoltà 3mila aziende in più.
Crescendo di 3mila in 3mila ogni 100 bp.
Inoltre, ogni 100 bp si riduce la redditività dell'azienda (ROE) di all'incirca un punto percentuale.
Quindi non si può fare immediatamente la trasmissione dello spread in costo del debito, ma c'è comunque un passaggio.
Se questo avvenisse in maniera importante come nel 2012, avrebbe un impatto negativo sulle PMI.
Come far crescere le PMI eccellenti attraverso il private equity?
La prima cosa è individuarle. Trovare queste PMI in un contesto di sistema relazionale come quello italiano non è banale.
Abbiamo applicato i nostri algoritmi di big data a tutto il tessuto economico e abbiamo individuato 5mila aziende molto in salute, che crescono più del 10%, con marginalità molto elevata.
Di queste, 3.200-3.300 sono essenzialmente di carattere famigliare.
Addirittura 1.000-1.500 sono "chiuse", che significa che non hanno nessun socio o consigliere esterno.
Quindi il primo punto per riuscire a farle crescere è individuarle poi creare trasparenza e fare formazione, nel senso che io azienda mi metto in condizione di essere visibile al mercato - per esempio facendo un rating - e quindi mi apro a potenziali investimenti esterni, con potenziali crescite maggiori a fronte di risorse maggiori.
Avete indagato anche sull'export?
Si e abbiamo registrato una cosa interessante, forse scontata, ma vederla nei numeri è più significativo.
Abbiamo visto che le aziende con una forte propensione all'export crescono molto di più di quelle che non lo hanno.
Una differenza di un ordine di grandezza.
Se prendiamo il periodo dal 2010 e concluso nel 2017 le aziende con propensione all'export sono cresciute del 22% mentre le altre del 6%.
Questo, soprattutto con una domanda interna debole, è sicuramente un fattore discriminante.
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