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18/10/2017

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Capeci (Kantar): come fare una strategia di brand management integrata

I millennials ci illustrano un nuovo modello: da un lato parlare a ciascun target attraverso i mezzi, e dall'altro parlare a tutti i target attraverso l'adesione a valori universali

Gli aspetti generazionali sono sempre fondamentali quando si affronta un tema di marketing. Ma diventano fondamentali quando, come nel caso dei millennials, costituiscono un fattore di disruption rispetto ai modelli precedenti. Ne abbiamo parlato con  Federico Capeci, Chief Digital Officer e Ceo Italy di Kantar TNS, in occasione della pubblicazione del libro "Post millennial marketing".

Partiamo dal suo ultimo libro: perché l'acronimo S.T.I.L.E. per identificare i millennials?

Per capire i millennials dobbiamo andare un po' indietro nel tempo e non limitarci a osservarli oggi che sono multitasking, utilizzano molti device e sono sempre connessi e anche un po' distratti. Dobbiamo andare, come per tutte le generazioni, al momento della loro adolescenza, così come per i Baby Boomers dobbiamo tornare agli anni '50-60, o agli '80 per la gen X. Per i millennials degli anni 2006-2008, massimo 2010. Qui è accaduto qualcosa di peculiare: l'esplosione dei social media e dei social network, in un momento in cui i ragazzi stavano formando la propria identità e la propria rete di relazioni, li ha fatti crescere in modo diverso.

Qui è nato l'acronimo S.T.I.L.E., che significa Socialità, Trasparenza, Immediatezza, Libertà ed Esperienza. Si tratta di cinque valori di base nati su questo terreno emotivo, di relazioni e crescita personale. I millennials sono quindi questo gruppo di soggetti, di età fino a 34 anni, nati e cresciuti in un ambiente iperconnesso, fatto di relazioni anche molto trasparenti e concrete, che si distingue da gran parte della popolazione.

Qual è il panorama del post millennial marketing?

E' un panorama fatto di scarsa efficacia ed efficienza. Gli investimenti pubblicitari stanno creando meno, anche per via di questa generazione ma non solo. Peraltro è uno scenario caratterizzato da una estrema frammentazione, non solo per le grandi opportunità che abbiamo noi nel giocare con le varie leve, tra cui il digitale. Ma una frammentazione molto forte proprio anche in termini di modelli di consumo. Basti pensare alle quattro generazioni che abbiamo di fronte: generazione X, Generazione Y, Generazione Z, adesso i Centennial, preceduti dai Baby Boomers. Questo è il panorama in cui il mio libro si interroga, prendendo atto del fatto che la comunicazione è sempre meno forte.



E' un problema di semantica, linguistica, di contenuti, di appeal o cosa?

Un mix di tutto questo. Il punto di osservazione più grande l'abbiamo fatto dentro le aziende. Oggi il marketing viene gestito dalla generazione X, che ha una logica propria, fatta di awareness, cresciuta con grandi campagne pubblicitarie che oggi ancora tutti ricordiamo, ma poco attinente alle dinamiche di fruizione dei mezzi e anche degli stili di consumo. Queste sono molto presenti nei millennial, ma non si limitano a loro. Costoro ci interessano perché sono la più ragionevole rappresentazione del nostro futuro. Guardare loro significa vedere noi tra 5 massimo 10 anni, quando saremo tutti come i millennial. Quindi tutte quelle logiche che hanno fatto grandi le aziende vanno riviste. Facciamo degli esempi concreti, partendo dell'utilizzo dei mass media. Già il termine mass media poco è attinente a questa mentalità molto integrata, connessa, frammentata, immediata, veloce e reattiva. Allo stesso modo, anche i mass brand oggi che tipo di ruolo possono avere? E allora le soluzioni sono proprio quelle del post millennial marketing.

Si tratta di un marketing che parte proprio dall'osservazione di questi soggetti, dal mondo in cui si relazionano con il brand, usufruiscono dei media, e che ci dice come cambierà il nostro futuro. Quindi, per tornare al confronto con Gen X e Gen Y, un brand deve uscire da una logica di stabilire una relazione con parametri di aspirazionalità; la Coca Cola era un mondo di felicità a cui la generazione X voleva tendere, peraltro in un particolare momento di incertezza culturale e sociale, e i marchi rappresentavano una via di fuga. Oggi i brand non possono più ambire a questo ruolo. In questo momento sono loro a tendere verso il consumatore, sono loro a dover rispondere agli stimoli forniti dal consumatore. E quindi si parla più di "brand fit" e di "brand purpose", per esempio, che sono gli ambiti in cui un brand può stabilire una nuova connessione. Non più un marchio che punta all'advertising e a un mondo aspirazionale, ma un brand che è intorno a tutti i touch point possibili che oggi il consumatore stesso ci mostra, per dare un significato molto più profondo.

Parlando di digital, come deve essere oggi una strategia di brand management integrata?

Uno dei grandissimi fraintendimenti che sentiamo quando parliamo con la business community è proprio il dover scegliere tra cosa fare con il digital e cosa senza digital.


Ancora una volta i millennials ci illustrano un modello molto più integrato. In sintesi, direi che un modello di brand management integrato deve essere da un lato un modello parla a ciascun target attraverso i mezzi, e dall'altro deve essere un sistema che parla a tutti i target attraverso l'adesione a valori universali.
Spiego meglio: da un lato la grande frammentazione dei touch point è una grande opportunità, poiché mi permetto oggi - anche con l'advertising programmatico - di andare a prendere i target nel momento più giusto, in un momento in cui magari nasce anche un bisogno, se voglio fare una comunicazione orientata proprio alla vendita, ma in maniera molto segmentata. Oggi i target non millennials hanno una fruizione media piuttosto diversa dai millennials stessi. Quindi qui le logiche di brand management devono essere di parlare a ciascun target,
Dall'altro canto, il brand deve riconnettere tutta questa frammentazione e diversity di utilizzo di media attraverso valori universali. Coca Cola da più di 100 anni parla tutti proprio con lo stesso valore, quello della felicità. Quindi, come spesso si afferma affrontando tematiche di formazione o quando si parla della crescita di un figlio, "non è tanto cosa dici, ma è il come tu ti mostri".


La stessa cosa avviene nell'advertising: il valore è lo stesso (universale se parliamo di brand universali), poi è il come viene declinato, utilizzando anche mezzi molto diversi tra loro, che fa la differenza.

Quali sono le richieste più frequenti da parte delle imprese?

Da qualche anno a questa parte la richiesta più assillante è quella del ritorno degli investimenti e della misurazione. Non sappiamo però se questa debba essere la vera domanda, la central question. Quella che ci piacerebbe ricevere è antecedente a tutto questo: prima di occuparci di come misurare mezzi che in questo momento storico non riusciamo neanche a connettere, per via di limitazioni tecnologiche, dovremmo parlare di strategia. Cioè quali sono i nuovi segmenti da attrarre? Quali sono le opportunità di mercato locali ed internazionali per i brand più forti che abbiamo sul territorio? In quest'ambito dovrebbero esser le domande. Mi piacerebbe molto di più occuparmi di settare bene la macchina della comunicazione e del marketing, e meno della misurazione, poiché poi a quel punto esistono tantissime leve, che non sono più di misurazione ma magari di reazione, che possono addirittura andare nel punto vendita, o nella conversione immediata.


Ma lì mi interesserebbe meno misurare. Lì voglio agire, devo fare risultati. E' sulla strategia che significa comprendere quali profili, quali motivazioni, quali comportamenti oggi sono per me prioritari rispetto a tutti gli altri che ho di fronte.

E' un problema più culturale, generazionale o di formazione?

A parer mio è anche di contesto storico. In questo momento tutte le aziende, ad eccezione di pochissime, sono alla ricerca di ottimizzazione. Quindi i budget sono sempre più corti, mentre le opportunità sono sempre numericamente maggiori e quindi c'è questa tensione all'interno dell'azienda che fa scaturire questo tipo di domande. Poi c'è anche un aspetto culturale ma di più un aspetto organizzativo. Più le aziende si fanno complesse, su modello multinazionale, e più c'è bisogno di uniformare una serie di parametri affinchè la casa madre possa controllare l'operato di tutte le filiali locali. Però io farei più riferimento ad una tematica contestuale economica odierna. Si vuole cioè prima capire quanto porterà un certo tipo di investimento più che il potenziale dell'investimento stesso.


Spero che a breve questo sia un punto che a breve potremo risolvere.

Kantar TNS si occupa di consulenza in diversi comparti, in quali avete riscontrato maggiori possibilità di innovazione?

Due in particolare, tra l'altro i più nuovi ed i più distanti da quelli che hanno sempre consentito alla nostra industria di essere florida, che sono le multinazionali del largo consumo. Queste oggi sono le aziende che stringono di più i budget e quindi soffocano di più, per certi aspetti, l'innovazione. I due grandi ambiti a cui accennavo e con cui stiamo lavorando molto bene anche in termini quantitativi sono, in primo luogo, quello che noi definiamo Technologies and Power Businesses, cioè tutti quei business che sono impattati in maniera significativa dalla tecnologia, quindi il tech (compresi i device), i media e le TLC. Questi tre insieme al mondo dei "durables" hanno smesso di essere parte di una stessa filiera per diventare estremamente competitivi l'uno con l'altro. Nel momento in cui una lavatrice proietterà un blog di un media e magari sarà connessa a degli altri strumenti, anche di comunicazione, realizzeremo la convergenza tra queste industrie.


In quest'ambito stiamo registrando una crescita straordinaria proprio perché diamo servizi altamente integrati. Dobbiamo anche esser molto dirompenti verso queste industrie, cercando di convincere loro a ragionare in un'ottica di ecosistema piuttosto che di settore specifico.
Il secondo comparto con cui stiamo facendo molto lavoro di innovazione e di qualità raccoglie quelli che noi definiamo i "Local Giants". Oggi sono i grandi clienti locali, con headquarter in Italia, di matrice italiana o meno, quelli di cui vediamo i maggiori investimenti verso l'innovazione e la sperimentazione. E noi, allo stesso modo, siamo ben propensi ad investire con questi clienti che ci consentono poi un palcoscenico internazionale importante.

Si parla sempre più di big data e relative analisi, ma voi andate ben oltre gli analytics. Che cosa offrite al mercato?

Kantar va insieme ai big data. La sfida che stiamo lanciando al mercato è quella di smetterla con questa inutile competizione tra le fonti dei dati. Noi sappiamo fare bene una cosa: capire l'umano, l'uomo.


Oggi per comprendere l'uomo ho necessità di tante fonti di dati, tanti strumenti e tante partnership. Ma questo non cambia il nostro scopo ultimo. Si sente spesso parlare di big data che vanno a sostituire focus group o ricerche di mercato: è una falsità e sono atteggiamenti criminali. Alcune cose capiscono i comportamenti degli umani, altre le motivazioni. Non potrò mai capire il desiderio di una persona se guardo solamente un comportamento. E viceversa non posso predire effettivamente il comportamento guardando le sole motivazioni. Questa è la bellezza oggi in cui siede la nostra industry, tra il mondo degli analytics, il mondo delle survey based - che siano qualitative o quantitative le dobbiamo comunque connettere con modelli di esplosione dei dati, uno versus l'altro - e il mondo dei dati transazionali. Kantar si posiziona in modo molto forte su questo mashup di dati. I dati transazionali, ovvero quelli su cui possiamo lavorare per identificare le opportunità di vendita, di consumo e di sales. I dati di profilazione, spesso comportamentali. E i dati di motivazione, quelli su cui il marketing lavora.
Tutto ciò non possiamo farlo da soli, poiché si tratta di impatti tecnologici e di investimenti considerevoli, però da un lato sviluppiamo competenze interne.


In Italia, per esempio, sta per arrivare una persona estremamente senior dai Paesi dell'America Latina, che si occuperà proprio di sviluppare tutta l'area analytics. Però un conto sono le competenze e un altro le piattaforme tecnologiche. Quindi i nostri più grandi clienti o anche fornitori tecnologici vanno da Google a Facebook, da Twitter a Snapchat - tanto per citarne alcuni - sono aiutati nella gestione dei dati e a nostra volta riceviamo da loro moltissimi dati. Poi abbiamo grandi partner di tipo tecnologico, tipo Qualtrics, che sono piattaforme che ci consentono anche di essere molto agili sul mercato.  


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