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21/07/2021

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Lo smartworking aumenta il rischio della delocalizzazione?

Per continuare ad ottenere un vantaggio competitivo, le imprese saranno tentate di delocalizzare le attività di lavoro remoto verso Paesi dove il costo della manodopera è più basso, come è accaduto in passato per i servizi IT o i call center

E' stata la risposta di imprese e lavoratori ad una situazione di emergenza, ma dopo 18 mesi ha cambiato forse per sempre le modalità in cui si lavora. Complice anche il fatto che il virus non è ancora stato completamente debellato. Dall'inizio della pandemia infatti, il lavoro da remoto si è imposto come la nuova normalità. Quando la crisi sarà terminata, questo cambiamento culturale potrebbe permettere alle aziende delle economie avanzate di assumere talenti in modalità smartworking nei Paesi emergenti, riducendo il costo del lavoro. Coface stima che il numero totale di posti di lavoro in smartworking nelle economie a reddito elevato si aggira intorno ai 160 milioni, mentre il numero di lavoratori a distanza potenziali nelle economie a basso e medio reddito si avvicina ai 330 milioni
Per le economie emergenti, queste potenziali delocalizzazioni virtuali potrebbero diventare un pilastro di sviluppo. Per identificare i possibili protagonisti di questo fenomeno, Il sud-est asiatico resta una regione a forte potenziale, in particolare India e Indonesia, così come altri grandi emergenti tra cui Brasile e Polonia.

Questa tendenza potrebbe minacciare la stabilità politica nei Paesi avanzati e aggravando le pressioni economiche sui lavoratori.



La tentazione della delocalizzazione virtuale


Negli ultimi decenni, la delocalizzazione dell'attività industriale e lo sviluppo delle catene del valore mondiali sono stati uno dei principali motori di crescita della produttività. Tuttavia, da molti anni ormai, questi benefici di produttività e rendimento sono diminuiti.
Per continuare ad ottenere un vantaggio competitivo, le imprese saranno tentate di delocalizzare le attività smartworking verso Paesi dove il costo della manodopera è più basso, come è accaduto in passato per i servizi IT o i call center. Coface stima che le imprese francesi risparmierebbero il 7% sul costo del lavoro se un impiego in smartworking su 4 fosse delocalizzato.
In Europa, circa il 40% dei lavoratori ha svolto la propria attività in remoto a tempo pieno durante il primo lockdown (secondo semestre 2020). Piacevolmente sorprese dalla produttività dei propri dipendenti, le imprese sono sempre più attratte dall'idea di una manodopera virtuale parzialmente globalizzata.

Negli Stati Uniti, la percentuale di aziende disposte ad assumere lavoratori a tempo pieno con sede all'estero è aumentata al 36%, contro il 12% prima della pandemia.

Quanti posti di lavoro in smartworking e quanti delocalizzabili?


Più un'economia si basa su attività di servizi qualificati, più aumenta la possibilità per la sua manodopera di lavorare in remoto. In un sondaggio condotto sui lavoratori statunitensi ad ottobre 2020, il 62% dei laureati ha dichiarato che il proprio lavoro potrebbe essere svolto a distanza. Secondo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, solamente il 13% degli impieghi nei Paesi emergenti potrebbero essere svolti in smartworking, contro il 27% nei Paesi ad alto reddito.
Questo non significa che tutte le tipologie di lavoro possono essere virtualmente delocalizzate. Molte attività richiedono una presenza parziale in loco, un contatto personale con i clienti, o una base di competenze e conoscenze specifiche locali.
Inoltre, per i Paesi ad alto reddito, le delocalizzazioni virtuali potrebbero diventare fonte di rischio politico, come la deindustrializzazione ha contribuito alla crescita del populismo.


La pressione della concorrenza globale può generare ansia economica tra i lavoratori altamente istruiti, alimentando la polarizzazione politica.
Infine, alcuni Paesi emergenti hanno maggiore capacità nell'attrarre gli investimenti associati alla delocalizzazione. Per identificare i possibili protagonisti di questo fenomeno, Coface ha costruito un indicatore basato su quattro criteri chiave: capitale umano, competitività del costo del lavoro, infrastrutture digitali e contesto imprenditoriale. Paesi come India, Indonesia o Brasile dispongono di un ampio numero di potenziali lavoratori a distanza e costi di manodopera molto competitivi. Altri, come la Polonia, offrono clima aziendale molto favorevole e solida infrastruttura digitale. Infine, mentre la Cina e la Russia sarebbero, in teoria, destinazioni virtuali ideali per la delocalizzazione, le tensioni geopolitiche e i crescenti problemi di sicurezza informatica con l'Occidente rappresenteranno un grosso ostacolo.
"Tra le conseguenze più evidenti della pandemia, la netta accelerazione dello smartworking sta impattando il mercato del lavoro in modo significativo a livello globale.


L'indicatore realizzato da Coface è uno strumento utile per individuare quali siano i criteri chiave al centro di questo cambiamento - tra capitale umano, competitività del costo del lavoro, infrastrutture digitali e contesto imprenditoriale - e soprattutto per identificare come le economie emergenti possano trarre beneficio dalla diffusione del lavoro da remoto, in termini di attrazione di investimenti e di contributo concreto al loro sviluppo", ha commentato Ernesto De Martinis, CEO di Coface in Italia e Head of Strategy Regione Mediterraneo & Africa (nella foto).


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