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09/01/2019

economia

I mercati temono (troppo) una recessione USA

Delitala (Pictet AM): ma profitti e valutazioni azionarie rimarranno sotto pressione. La Fed ha un potere discriminante sull'entità di questo rallentamento

Il 2019 esordirà con un rallentamento sincrono delle economie sviluppate, mentre non ci attendiamo la recessione che i mercati hanno recentemente manifestato di temere. L'inversione della curva dei tassi Usa, che è considerata un anticipatore delle fasi di contrazione dell'attività economica, ha scatenato il panico sui listini nelle scorse settimane, con conseguenti episodi di violenta volatilità. Questa reazione ci appare però eccessiva per almeno due ordini di ragioni: innanzitutto, l'inversione della curva attuale è avvenuta nel tratto 2-5 anni, che ha un valore segnaletico poco significativo. Inoltre, se analizziamo gli eventi che hanno preceduto le tre peggiori recessioni degli ultimi 50 anni, osserviamo che l'inversione della curva precede di oltre un anno la recessione e per essere significativa riguarda la parte lunga, tra 10 e 30 anni. Il nostro indicatore dello stato di salute dell'economia USA, che si compone di 29 variabili, tra cui figura anche l'inversione della curva, mostra una probabilità di recessione del 5%, in aumento di un solo punto percentuale rispetto al 4% dello scorso anno (soglia critica a ca 23%).


La dinamica della curva dei rendimenti USA è in effetti riconducibile prevalentemente a fattori tecnici. Il principale è che il ciclo economico artificioso che stiamo vivendo è nato dalle ceneri della crisi ed è dunque viziato dalle politiche monetarie super espansive delle banche centrali. Le varie ondate di Quantitative Easing hanno rimosso grandi quantità di Treasuries (Titoli di Stato USA) dal mercato creando una domanda in eccesso per le lunghe scadenze, evidente nella compressione del premio a termine (rendimento in eccesso rispetto alla successione di tassi a breve attesi sullo stesso orizzonte della scadenza del titolo considerato), superiore che nella parte breve. Il Term Premium non è salito neppure nell'ultimo anno, durante il quale la Fed ha drenato liquidità, anche a causa di una regolamentazione sempre più stringente che impone alle banche di detenere ampie disponibilità liquide, creando di fatto una domanda aggiuntiva per i Treasuries.
Inoltre, questo ciclo economico positivo è il secondo più duraturo dell'ultimo secolo: entro metà 2019 raggiungerà il primato dei 120 mesi messo a segno da quello vissuto nel 1991-2001.

Ciononostante, i leading indicators degli Usa rimangono solidi: in particolare, l'ISM è a quota 60 e ci muoviamo in un contesto di piena occupazione.
I mercati piuttosto temono una compressione dei margini di profitto aziendale futuri, in particolare a causa di un più elevato costo del denaro e dalle pressioni salariali mentre le aspettative di un ritorno dell'inflazione, ovvero della capacità delle aziende di trasferire sui prezzi di vendita gli aumenti dei costi di produzione, sembrano rientrate.
D'altro canto, il superamento della repressione finanziaria e il conseguente drenaggio della liquidità (già a regime in Usa e in attesa di iniziare in Europa e in Giappone), avrebbe frenato utili e valutazioni delle attività finanziarie. Infatti, di norma la presenza di liquidità in eccesso rispetto al funzionamento dell'economia si ripercuote in valutazioni più generose delle azioni; di converso quando la quota di liquidità in eccesso si riduce (come sta avvenendo in questa fase), le valutazioni si contraggono.
In effetti gli utili delle società dell'S&P quest'anno sono aumentati del 20% rispetto al 2017 e tuttavia l'indice delle quotazioni è allo stesso livello (anzi ora sotto) di un anno fa.


Ciò significa che il rapporto Prezzo/Utili è sceso di altrettanto: un derating, o contrazione dei multipli, che spinge gli indici al ribasso. Per il 2019, gli utili sono attesi in crescita a ritmo più che dimezzato, di ca il 9%, coerente se non altro con il venire meno del "doping fiscale" del 2018 sugli utili, stimabile in circa dieci punti percentuali. Il problema principale è comunque l'ottimismo degli analisti nel medio periodo: per quanto poco affidabile, le previsioni degli analisti (IBES) per il lungo termine rimangono al di sopra del trend storico di circa 3 punti percentuali. Dal punto di vista valutativo, invece, dopo gli ultimi ribassi, il P/E basato sugli Utili attesi per i prossimi dodici mesi si attesta a 15,2 vicinissimo alla media storica di lungo periodo: 15.
In questo contesto, Pictet AM stima che i ritorni prospettici dell'S&P a cinque anni si collochino in un range tra lo 0 e il 5% annuo, ovvero a un livello molto inferiore rispetto alla media storica su un orizzonte temporale di mezzo secolo, che colloca quel valore intorno all'8% annuo (in termini reali), in media, e rispetto al 12% registrato a partire dall'avvio del QE nel 2009.


Ci muoviamo in un contesto nuovo: il new normal caratterizzato appunto da utili contenuti, da tassi di interesse e rendimenti obbligazionari che si collocano a un punto di equilibrio sotto il 3%, rispetto al 4,5% dei cicli precedenti, e da un'inflazione che stenta a raggiungere l'obbiettivo del 2%.

Torna in scena il policy mistake della Fed

Guardando al prossimo futuro, quello che accadrà sul fronte macroeconomico e le conseguenti strategie di investimento dipenderanno in massima parte dalle azioni della Fed in merito a tassi di interesse e la normalizzazione del balance sheet. La Banca Centrale Usa si è già espressa, dopo le elezioni di Mid-Term, in merito ai tassi. Jerome Powell, nel corso dell'ultimo speech al Club degli economisti a NY a fine novembre ha ammorbidito la precedente posizione trasmessa erroneamente al mercato, secondo cui la Fed avrebbe aumentato i tassi, al consueto ritmo graduale di 25pb a trimestre, fino a un livello (il neutral rate) ancora lontano e forse anche oltre. Powell ha ora precisato che poiché non si conosce bene il tasso di equilibrio (che è nel range tra 2,5 e 3,5%), ora che stiamo entrando nell'intervallo che lo contiene, è opportuno rallentare il passo.


Si preannuncia dunque una pausa nel 2019, probabilmente già dopo il rialzo di dicembre o, al più tardi, quello di marzo.
Subito dopo questa nuova presa di posizione dovish del governatore della Fed, i Fed Fund Future, che indicano il punto in cui il mercato colloca le attese sui tassi a breve, si sono posizionati al di sotto del 2,75%: che corrisponde a un unico ulteriore rialzo nel 2019, per poi attuare una nuova graduale discesa sotto la soglia del 2,5% a fine 2020. Il mercato ha già riprezzato la fine di questo ciclo, dando per certa la disponibilità di Powell e proietta un ripensamento che, se praticato assume le sembianze di un policy mistake.
Manca tuttavia un elemento determinante, su cui la Banca Centrale non ha ancora preso posizione: la gestione della liquidità. Attualmente il riassorbimento della stessa sta avvenendo, da ottobre, a un ritmo di 50 miliardi di dollari al mese, che equivalgono in un anno a 600 miliardi di dollari l'anno. Si tratta di un ritmo elevato, difficilmente sostenibile da parte di un'economia in rallentamento e che potrebbe provocare un credit crunch.


Tuttavia, su questo tema, all'interno del FOMC (Federal Open Market Commettee, organo decisionale sulle politiche monetarie), non è emersa al momento un'opinione precisa sul livello finale del bilancio della Banca Centrale: non si comprende infatti quale sia la dose di liquidità corretta da lasciare nel sistema, che deve essere commisurata alla quantità di riserve libere che le banche desiderano detenere presso la Fed. Dunque, a maggior ragione in questo caso, la FED potrebbe adottare il criterio del rallentamento in fase di approccio procedendo con prudenza (come una nave che si avvicina al porto) verso un punto di equilibrio che non è ancora noto. Anche perché, oltre al rischio di credit crunch, c'è da considerare che un eventuale errore sul bilancio della Fed sarebbe meno facilmente reversibile di un overshooting sui Fed fund rate.

Gli scenari possibili sono due:

Il primo si potrebbe verificare se la Fed proseguisse con il drenaggio di liquidità al ritmo attuale con un impatto sul Pil equivalente a due/tre (ulteriori) rialzi dei tassi. Infatti, in base ad alcuni studi della Fed sul QE si può ipotizzare che 100 miliardi di drenaggio della liquidità equivalgano a un aumento dei tassi di 10 punti base.


Inoltre stimiamo che un aumento di 100 punti base sui Fed Funds possa avere un impatto negativo pari all'1% sul Pil dell'anno successivo. Possiamo dunque concludere che 600 miliardi di liquidità sottratta all'economia possano frenare il Pil Usa per circa uno 0,6% nel 2019/20: con l'effetto di generare un nuovo derating, capace di erodere per intero tutta la sorpresa sugli utili. In questo contesto dovremmo probabilmente aspettarci performance azionarie a zero o negative;

Il secondo scenario, decisamente più positivo, è anche a nostro avviso il più plausibile anche se non ancora ritenuto tale dal mercato. Riteniamo che lo stesso ammorbidimento che Powell ha mostrato sui tassi, potrebbe emergere anche sul bilancio. Poiché non è noto il valore del terminal balance sheet, la Fed potrebbe in questo caso almeno rallentare il passo, diminuendo il ritmo del mancato reinvestimento dei titoli in scadenza (50 miliardi/mese), ovvero del Quantitative Tightening. Riteniamo che le nubi potrebbero diradarsi entro marzo, con la Banca Centrale che potrebbe assumere una posizione ufficiale e chiara al riguardo. Nell'ipotesi che il punto di arrivo del bilancio Fed fosse fissato a 3,5 miliardi di euro, dai 4 attuali, entro fine 2019 si raggiungerebbe il traguardo, e la pressione sulle valutazioni si attenuerebbe, con la possibilità di performance azionarie pur sempre ad una cifra, ma più verosimilmente positive.




Andrea Delitala, Head of investment advisory di Pictet Asset Management


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