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Referendum di giugno: cosa cambia per cittadinanza e lavoro in ItaliaReferendum di giugno: cosa cambia per cittadinanza e lavoro in Italia


Tra pochi giorni, l'8 e 9 giugno, gli elettori italiani sono chiamati alle urne per una serie di voti che toccano direttamente la vita quotidiana di milioni di persone. Sono cinque referendum abrogativi, strumenti con cui i cittadini possono chiedere di modificare o eliminare leggi esistenti.

La loro efficacia, però, dipende crucialmente dalla partecipazione: serve che vada a votare almeno la metà degli aventi diritto perché i risultati siano validi. Questi quesiti non sono solo esercizi tecnici, ma riguardano questioni molto concrete che influenzano temi centrali come i diritti e le tutele.



Sono suddivisi in due aree principali: uno riguarda la cittadinanza, mentre gli altri quattro si concentrano su aspetti cruciali del mondo del lavoro.

Uno dei quesiti più discussi riguarda la cittadinanza italiana. L'obiettivo è intervenire sulla durata del periodo di residenza legale necessario per poter presentare la domanda. Attualmente, la legge stabilisce in dieci anni il termine di soggiorno ininterrotto e regolare in Italia prima di poter avviare la procedura. La proposta referendaria punta a dimezzare questo requisito, portandolo a cinque anni.

Questa modifica, se approvata, potrebbe avere un impatto significativo. Si stima che riguardi almeno 2,3 milioni di residenti che potrebbero trovarsi nella condizione di poter richiedere la cittadinanza con tempi più brevi. È vero che le lungaggini burocratiche spesso allungano i tempi effettivi, a volte fino a tre anni aggiuntivi.


Per questo, alcuni promotori parlano di un passaggio da tredici a otto anni effettivi per completare l'iter.

È importante sapere che il quesito non tocca gli altri requisiti fondamentali che rimangono invariati: la conoscenza della lingua italiana, la dimostrazione di un reddito stabile e l'assenza di reati.

Gli altri quattro referendum si concentrano sul mondo del lavoro, proponendo modifiche a leggi approvate negli ultimi anni che hanno profondamente trasformato il panorama delle tutele e dei diritti dei lavoratori.

Il primo quesito mira a cambiare le regole sui licenziamenti illegittimi, in particolare per chi è stato assunto dopo il 2015. Attualmente, secondo il Jobs Act, se un lavoratore in un'azienda con più di quindici dipendenti, assunto dopo il 7 marzo 2015, viene licenziato ingiustamente, non ha diritto al reintegro nel posto di lavoro.


In questi casi, riceve solo un'indennità economica, che varia tra le sei e le trentasei mensilità di stipendio. Se questa norma venisse abrogata, si tornerebbe in parte al sistema precedente. Questo significa che per certe tipologie di licenziamenti, come quelli considerati nulli per legge, un giudice potrebbe ordinare non solo un risarcimento, ma anche il rientro effettivo del lavoratore in azienda. È un ritorno, per alcuni aspetti, all'approccio dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, nella versione modificata dalla cosiddetta legge Fornero del 2012.


Un altro quesito affronta la questione dell'indennità di licenziamento nelle imprese più piccole. Nelle aziende con meno di sedici dipendenti, chi subisce un licenziamento ingiustificato ha diritto a un risarcimento, ma c'è un tetto massimo fissato per legge: sei mesi di stipendio.

L'obiettivo del referendum è rimuovere questo limite. In caso di vittoria del Sì, sarebbe un giudice a stabilire l'importo dell'indennità, valutando vari fattori come l'anzianità del lavoratore, l'età, i carichi familiari e la situazione economica dell'azienda, cercando così di garantire una tutela maggiore per i lavoratori di queste realtà spesso meno strutturate.


C'è poi un quesito cruciale per molti lavoratori: quello sui contratti a termine. Oggi, un datore di lavoro può stipulare un contratto a tempo determinato per un massimo di dodici mesi senza dover specificare la ragione, la cosiddetta "causale".

Si stima che circa due milioni e trecentomila persone lavorino con questa tipologia contrattuale, un dato che evidenzia la rilevanza del tema. Il referendum propone di reintrodurre l'obbligo di indicare sempre una causale specifica quando si ricorre a un contratto a termine anziché a uno a tempo indeterminato.

Questo reintrodurrebbe un elemento di motivazione e giustificazione per l'uso di contratti non stabili.

L'ultimo quesito lavoristico riguarda la sicurezza sul lavoro e le responsabilità in caso di infortuni o malattie professionali nei rapporti di appalto. Le norme attuali prevedono che l'azienda "committente" – quella che affida un lavoro in appalto – sia responsabile in solido insieme alle ditte appaltatrici e subappaltatrici per i danni ai lavoratori, ma solo se non hanno copertura assicurativa (come l'INAIL o l'IPSEMA).

Esiste però una clausola che esclude questa responsabilità per il committente se l'infortunio o la malattia derivano da rischi considerati "specifici" dell'attività svolta dall'appaltatore o subappaltatore. Il referendum intende eliminare proprio questa eccezione, estendendo la responsabilità del committente anche in quei casi e cercando di aumentare la pressione per garantire la sicurezza nell'intera catena dell'appalto.

Queste proposte di modifica legislativa hanno un sostegno eterogeneo. La CGIL e +Europa sono tra i principali promotori, affiancati da partiti come PD, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi Sinistra. Dall'altro lato, i partiti della maggioranza di governo si sono detti contrari, così come Azione e Italia Viva.

Il voto di giugno, dunque, mette sul piatto questioni che toccano da vicino la vita di milioni di persone, dalla possibilità di ottenere la cittadinanza più velocemente alle tutele nel proprio impiego quotidiano. La partecipazione è l'elemento chiave per rendere questi referendum uno strumento efficace di cambiamento.


Referendum di giugno: cosa cambia per cittadinanza e lavoro in Italia
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