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_Febbraio2013

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Bianco (Bankitalia): la piena occupazione femminile vale il 7% del Pil

Anche se la legge 120/2011 ha aperto le porte dei CDA alle donne, c’è ancora molto da fare per far emergere tutto il potenziale del lavoro femminile. A partire dalle possibilità di carriera e dal welfare aziendale

In un momento di crisi occupazionale come quello che stiamo vivendo, ogni aspetto del lavoro diventa fondamentale. E se il dato della crescente disoccupazione giovanile viene giustamente messo in luce ad ogni rilevazione, anche quello dell’occupazione femminile merita di essere preso in maggiore considerazione. Anche alla luce delle potenzialità che può portare nel mondo del lavoroe dell’intera economia del Paese. Ne parliamo con Magda Bianco, Capo della Divisione di Economia e Diritto della Banca d’Italia, incontrata in occasione della recente tavola rotonda sul tema “Le donne e l’economia italiana”, progetto di ricerca della Banca d’Italia.

Lavoro femminile: come siamo messi in Italia?
Molto male. La distanza da quello maschile è ancora molto elevata, e in assoluto, nel confronto internazionale la partecipazione femminile al mercato del lavoro tout court è molto bassa. Se poi consideriamo i dati riferiti ai vertici aziendali, la posizione diventa quasi insostenibile: i numeri si riducono moltissimo ovunque, in alcuni settori più che altri.

Per esempio, nel comparto finanziario è molto bassa, e se arriviamo ai vertici delle società quotate è bassissima. O meglio, lo era, poichè l’introduzione di una legge, la 120/2011 (quella sulle “quote rosa” o quote di genere) sta in parte rimediando.
Qualche dato: nelle aziende sopra i 1000 dipendenti, la componente lavoro femminile è del 39%, ma la percentuale di dirigenti è solo del 12%. Nelle imprese da 50 a 99 dipendenti le donne sono il 30% e poco meno del 15% le dirigenti.
Se consideriamo i Consigli di Amministrazione delle quotate, possiamo però rilevare che se nel 2007 la componente femminile era del 5,4%, a fine 2012 siamo a oltre l’11, con più della metà del totale “indipendenti” dal controllante.

Quali le differenze con il resto dell’Europa?
In Europa la situazione è molto variegata. Ci sono Paesi che hanno fatto molto più di noi in termini di politiche, e hanno oggi risultati molto significativi in termini sia di partecipazione al mercato del lavoro, sia di presenza ai vertici in politica e in economia. Ci sono anche Paesi che non sono troppo distanti dal nostro, soprattutto in termini di cultura e stereotipi, ma non c’è nessun Paese che ha una partecipazione femminile al mercato del lavoro così bassa.



La radice del problema: quali sono i principali gap nella domanda e nell’offerta di lavoro?
I gap sono molti e su entrambi i fronti. Rispetto alla domanda di lavoro quello principale è sicuramente quello culturale, la presenza di stereotipi, quando l’impresa si pone davanti a un interlocutore femminile. Lo stereotipo vale sia per l’accesso al mondo del lavoro, sia in fase di carriera. Questo ha a che fare con la cultura italiana, ma forse va oltre la cultura stessa ed è condiviso da altre realtà e Paesi. In tutti i percorsi di carriera ancora oggi ci sono forti elementi di discriminazione implicita, non sempre percepiti dai soggetti che realizzano la selezione, che tendono implicitamente, appunto, a preferire gli uomini. Questo perchè a volte fanno parte dello stesso network, ma altre volte perchè pensano che siano effettivamente meglio delle donne (quasi senza rendersene conto). A questo si aggiunge la cultura italiana e il ruolo della donna all’interno della famiglia.
Sul fronte dell’offerta di lavoro direi che il problema fondamentale è la difficoltà di assicurare un equilibrio vita-lavoro, che si rovescia interamente o in buona parte sulle donne.

Il problema del bilanciamento delle esigenze familiari e di quelle lavorative viene riversato in gran parte sulla componente femminile che non può beneficiare a sufficienza di strutture esterne, pubbliche o private, a sostegno delle attività di cura, sia verso i bambini, sia verso - oggi sempre di più – gli anziani.

Alla luce della ricerca, quale può essere il contributo e il ruolo della donna nella crescita italiana?
Può sicuramente essere importante su molti fronti. Meccanicamente se si potesse far accedere al mercato del lavoro il numero di donne che il Trattato di Lisbona chiedeva all’Italia - il 60% di tasso di occupazione femminile – il PIL aumenterebbe, sempre meccanicamente, di un 7%, secondo i nostri calcoli. Questo se avessimo risolto il problema di far accedere al mercato del lavoro queste donne. Però oggi ci sono molti studi che evidenziano come una maggiore diversità di genere nel sistema economico, nel suo complesso, produca benefici di varia natura. Nelle imprese induce risultati migliori, per esempio, nelle capacità di organizzazione, di interazione tra soggetti, di sensibilità ad alcuni problemi.


Nella gestione della cosa pubblica ci sono studi che indicano come le donne siano meno esposte ai problemi di corruzione, per esempio. Quindi si tratta di benefici economici, anche significativi, che possono arrivare in forma diretta, qualora le donne possano entrare nel mercato del lavoro, oppure attraverso le loro caratteristiche che interagiscono con quelle maschili.

Il numero delle lauree al femminile cresce ogni anno e ha superato quelle maschili. Hanno una marcia in più?
Direi di si. Le giovani donne hanno spesso una marcia in più come capacità e competenze. Sul fronte dell’istruzione c’è però ancora un problema di selezione dei campi di studio. Le donne sono ancora un po’ meno orientate ai settori scientifici, ma il gap anche qui si sta chiudendo.

Quali sono le proposte che emergono dalla vostra ricerca?
Il problema è complesso e investe tante cause radicate profondamente nel Paese e probabilmente richiede di essere aggredito su tanti fronti. Forse quello più difficile è quello culturale. Qui bisogna agire, appunto, sulla cultura, quindi dalle radici, addirittura probabilmente sulle scuole.


I media, ovviamente, hanno un ruolo importantissimo e in Italia l’hanno svolto in passato in modo non proprio positivo nel presentare un’immagine della donna di un certo tipo. Sul fronte della cultura possono servire interventi di “disincrostazione” di alcuni fenomeni, come possono essere le azioni positive, per esempio quelle nelle società quotate o nelle imprese pubbliche. Poi, ovviamente, occorre agire nel rimuovere alcuni vincoli dal lato dell’offerta di lavoro, e quindi è essenziale creare strutture che favoriscano un migliore bilanciamento tra vita e lavoro, pur con i vincoli di finanza pubblica che abbiamo oggi. Avere delle priorità future su quali devono essere le direzioni di spesa una volta che riusciamo a realizzare dei risparmi, può essere importante.

Quali sono le maggiori differenze tra settore pubblico e privato?
La nostra ricerca non ha analizzato specificatamente questo ambito. Ma quello che si vede nei numeri è che sicuramente nel settore pubblico c’è una maggiore presenza femminile, anche se meno nei vertici, naturalmente. Questo, in parte, per i canali di accesso: nel settore pubblico si accede per concorso che è tipicamente anonimo, Così anche l’avanzamento di carriera avviene fino a un certo punto per concorso.


Noi vediamo che mediamente dove il modello di selezione è del tutto anonimo o neutrale, le donne hanno più possibilità. Dove la selezione avviene per cooptazione, questo è molto più difficile. Il settore pubblico ha inoltre altri meccanismi di tutela formale rispetto al privato. Per esempio in alcuni comparti le maggiori possibilità di conciliazione hanno favorito e incrementato la presenza femminile.

Welfare aziendale e organizzazione del tempo: quali le maggiori problematiche?
Resto convinta che uno strumento fondamentale nell’ambito aziendale sia la flessibilità lavorativa. Ma una flessibilità vera, che include tanti strumenti, di cui alcuni già disponibili come il part time, che vengono usati relativamente poco o sono addirittura ghettizzanti per le donne. Quindi la vera flessibilità è un uso molto più ampio della tecnologia (con il telelavoro), che viene già utilizzata soprattutto nelle grandi aziende e nelle multinazionali, ma che potrebbe essere molto molto più ampia anche nelle piccole e medie imprese, Su questo probabilmente abbiamo uno svantaggio competitivo proprio come Paese, perchè le nostre PMI forse su questo fronte sono ancora relativamente poco attrezzate.


Questo è, a parer mio, un canale fondamentale, poichè consentirebbe di avere uno strumento poco discriminante e che, anzi, nelle esperienze internazionali dimostra di essere utilizzato quasi più dagli uomini, creando vere opportunità di bilanciamento tra vita e lavoro.



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