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_Dicembre2012

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Fuori dall’orticello per innovare

Carella (Manageritalia): I casi offerti dalle aziende di successo parlano chiaro: i risultati migliori nascono oltre il proprio settore. E i motori di questo processo devono essere i manager, creando le condizioni perché succeda

Siamo in piena innovation economy. È vero, e ci faremo molto male. Innovazione: per alcuni una croce pesante da portare (arduo rinascere continuamente), per molti un’infallibile panacea che guarisce tutti i mali in azienda (così, a prescindere), per tutti una parola da usare e abusare in ogni discorso e proclama. Di fatto in un mondo nuovo (vedi complesso) le cose si complicano. È molto raro che nascano idee fortemente nuove o individuazioni di nuovi mercati se si è troppo immersi nel proprio core business. Oggi le migliori innovazioni trovano espressione oltre i confini settoriali, in una sorta di incrocio continuo con altre tendenze e modelli. Eccola dunque la cross-innovation: incrociare settori, esperienze, canali, talenti, culture, tendenze, funzioni, brevetti, competenze, target... per ibridare ogni processo della gestione aziendale. In una formula cara al mash up: innescare innovazione pescando da sorgenti multiple.

Un nuovo lavoro per manager e italiani

Vediamo allora se siamo pronti ad affrontare proattivamente questo nuovo modo di (col)lavorare? Italiani e manager – intervistati da AstraRicerche e Duepuntozero DOXA per Manageritalia nel 2012 – dicono che aumentare produttività e benessere di individui e aziende si può eccome.

La loro ricetta è: valutare le persone su merito e risultati raggiuti (96% manager, 88% italiani), gestirle per obiettivi (93% e 81%), più formazione (93% e 91%) e gestione manageriale (92% e 72%) e un’organizzazione aziendale meno gerarchica e più collaborativa (87% entrambi). E per finire, sempre tra i must, maggiore conciliazione tra vita lavorativa e personale (85% entrambi) e introduzione di programmi di welfare aziendale (77% e 81%).
Ancora i manager, in un’indagine dell’Osservatorio Manageriale Manageritalia del 2012, riconoscono il loro ruolo primario in questa necessità e opportunità di lavorare meglio e collaborare. Dichiarano prima di tutto che il ruolo del management è fondamentale per favorire collaborazione e innovazione sia all’interno che all’esterno dell’azienda (94,5%). Le declinazioni della collaborazione, oltre a quelle viste sopra, possono essere varie ma fra tutte spicca: utilizzare al meglio tutte le più moderne tecnologie per favorire la collaborazione interna ed esterna (95,9%) e creare comunità professionali aperte alla partecipazione di soggetti esterni (66,4%).

Collaborare per competere

Può sembrare un controsenso, ma oggi collaborare per competere è una necessità, un’opportunità e non è più una novità.

“Oggi per le aziende collaborare al meglio all’interno e all’esterno – dice Guido Carella, presidente Manageritalia – è diventato un must indispensabile per competere. Perché ormai tutte grandi o piccole che siano devono entrare in reti e catene del valore a livello più o meno globale integrandosi al meglio con tutti gli attori a monte e a valle. Creare le condizioni perché questo avvenga è compito di imprenditori e manager e i vantaggi sono indubbi per l’azienda e per i singoli in termini di performance, profitti e clima. Certo che le premesse sono creare un clima collaborativo prima all’interno e all’esterno, e qui prima di tutto bisogna costruire rapporti saldi e basati sulla fiducia reciproca. Un’ottima organizzazione aziendale che indirizzi in modo produttivo l’ampia libertà e flessibilità che questi processi richiedono. E poi in generale, ma soprattutto per favorire l’innovazione, c’è bisogno di far vivere l’insuccesso come una componente ineliminabile e positiva”.

Dalle parole ai fatti

Ma allora collaborare per innovare, che è una delle declinazioni della collaborazione, di certo una delle più difficili, è complicato e come avviene? Iniziamo con qualche piccolo ragionamento, tanto per delimitare il terreno di gioco.


Ragionamento numero uno. Io sono una banca, tu sei una banca, egli è una banca, noi siamo una banca, voi siete una banca, essi sono una banca e tutti insieme ci copiamo e ci ispiriamo a vicenda. Coniugazione indicativa (e negativa) per quasi tutti i settori. I quali, posseduti dal morbo di benchmark (e relative best practice), raramente producono sane innovazioni di rottura. Disruptive, in una parola, inglese. Difatti troppo spesso il potenziale innovativo delle imprese è ingabbiato dalle sbarre settoriali. Approcci e modelli consolidati producono nella migliore delle ipotesi innovazioni incrementali (miglioramento dei prodotti e servizi), ma quasi mai innovazioni radicali capaci di aprire nuovi mercati. Il punto è questo: in un mondo connesso e senza confini (senza dogane) anche le imprese si devono trasformare in continenti aperti alla libera circolazione di “ogni” e ripeto “ogni” idea.
Ragionamento numero due. Ottimo farsi ispirare da portali come www.springwise.com che postano quotidianamente idee innovative e business emergenti da tutto il mondo. Ma perché limitarsi, come fanno in molti, ai trend del proprio settore? Se mi occupo di retail sicuramente sotto la voce retail trovo impulsi per nuovi format ma forse trovo ancora più impulsi monitorando in modo sistematico (e con personale dedicato allo scouting) altri lidi, altri mondi, insomma consultando altre voci dal database delle idee.


Sembra ovvio, ma in verità le aziende faticano a implementare “organizzazioni olistiche”.
Ragionamento numero tre. Dicono: “i concorrenti non li incrocio quasi mai sulla mia strada, salvo per tirarli sotto”. Sbagliato. La coopetion è uno di questi auspicabili incroci. Collaborare per innovare, con vantaggi reciproci. Già due anni fa Ferrero e Mars (di norma litigiosi fra gli scaffali) hanno collaborato per innovare logistica e distribuzione dei prodotti (condivisione di piattaforma e mezzi di trasporto).
In fondo, la cross-innovation è concettualmente semplice. Si abbandonano i sentieri battuti e il proprio orticello (inclusi quelli confinanti che coltivano idee analoghe) per avventurarsi in terre sconosciute e quasi misteriose. Se siamo così poco propensi all’interdisciplinarità e transdisciplinarità (insomma, l’attitudine a incrociare in modo quasi spericolato) la colpa è, metaforicamente, anche dei semafori che ci hanno educato a ordinati e regolari flussi di direzione. L’azienda cross invece dovrebbe assomigliare alle zone senza semafori e segnaletica (tecnicamente shared space) sperimentate in molte città europee.




Qualche esempio di successo

Queste alcune teorie. Ma come funziona tutto questo nella pratica? Per certi versi è abbastanza semplice, almeno a detta di alcuni imprenditori e manager. “Ci piace incrociare le conoscenze e frequentare fiere di altri settori” ci raccontano alla Baufritz, società tedesca specializzata in case prefabbricate. L’idea della casa cabrio (con il tetto parzialmente decappottabile) è venuta dopo la visita a un salone automobilistico e dopo avere ammirato alcuni modelli cabriolet. E poi?
Poi ci sono gli incroci possibili. Tanti quanti i sentieri che si biforcano alla J.L. Borges. Proviamo e iniziamo con un esempio datato (primi anni 2000) che funge da apripista, l’autovettura crossover: incrociare carrozzerie per ottenere modelli ibridi; incrociare mondi come educazione e intrattenimento per rendere più appetibili (e appealing) temi complessi, vedi i vari festival della scienza che sono difatti un classico esempio di edutainment; incrociare dipendenti con scambio (swapping) temporaneo dei manager tra un’azienda e l’altra per innescare percorsi di open door innovation, come ha fatto Google con P&G; incrociare le età e punti di vista diversi (giovani talenti con esperti in pensione) per attivare nuovi progetti, come fa abitualmente Loccioni in Italia; incrociare competenze per aprire nuovi mercati fuori dal core business, come ha fatto Volkswagen con Lichtblick per entrare nel settore energetico come smart energy provider; incrociare brevetti (patent sharing) per condividere soluzioni e processi come fanno Ibm, Nokia, Sony e molte altre imprese all’interno di un’alleanza di sfruttamento della conoscenza; incrociare contributi (e idee) per sfruttare i benefici dell’open innovation, come fa P&G da sempre (ben il 50% dei nuovi prodotti viene concepito fuori dall’azienda in una logica di “not invented here”); incrociare mercati andando ben oltre il core business per sfruttare il proprio know how altrove, come fa l’azienda dell’Alto Adige Leitner Technologies (tecnologie per funivie) che passa con disinvoltura dalle seggiovie (core) agli impianti eolici fino ai minimetrò cittadini automatici; incrociare la folla (il tanto amato trend del crowd) per farla lavorare e guadagnare per noi, come ha fatto Apple con il mercato delle app.



Questi esempi di ramificazioni ci dicono anche un’altra cosa: parlare oggi di food, automotive, fashion con classi di prodotti, servizi e target ben definiti non ha più senso: i mercati ibridi o meglio i cross-market richiedono cross-innovation. Proprio il food lo dimostra da tempo: molti nuovi prodotti alimentari sono un mix di caratteristiche e contaminazioni presi da altri settori (wellness, fitness, farmaceutico, design, sport o mobilità, vedi street food). Come d’altra parte non ha più senso parlare di premium o discount. La tanto celebrata polarizzazione dei mercati è una semi bufala, già andata a male. Meglio passare dalla polarizzazione all’ibridazione incrociando posizionamenti come cheap premium o cheap chic. Come hanno fatto Grom, Ikea o Nau Ottica, nata proprio su questo trend. 

Decalogo della cross-innovation

1) Prerequisito della cross-innovation è l’open e connected innovation. Senza la totale apertura e connessione in rete nessun incrocio è possibile.
2) Strategie e obiettivi chiari: l’azienda vuole puntare su innovazioni radicali o incrementali? ci sono le risorse umane e un clima culturale adatti?
3) Per avere successo il tema della cross-innovation deve salire ai piani alti dell’azienda coinvolgendo ceo e direzione generale.



4) Applicare il motto greco “conosci te stesso” mettendo a fuoco punti di forza e debolezza nella propensione all’innovazione.
5) I migliori risultati si ottengono creando alleanze e integrazione di competenze.
6) La cross-innovation è un gioco di squadra fatto di networking e collaborazione allargata (fornitori, clienti, concorrenti ecc.).
7) Keep it simple: grandi reti ma piccoli team con budget ridotti per esplorare le potenzialità della cross-innovation in un clima di autogestione.
8) Dagli errori e fallimenti spesso nascono le migliori cross-innovation, come dimostra bene il caso di Post It della 3M (nato da un esperimento fallito di supercolla).
9) Per incrociare bisogna praticare la tecnica del mash up: pescare dinamicamente spunti e contenuti da più fonti per creare servizi e prodotti inediti.
10) Assumere gente esotica o meglio personale di altri settori e con esperienze non “pertinenti” per l’attività aziendale è una delle regole migliori e più semplici da attuare.


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