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27/03/2019

idee

MoU con la Cina: la solita asimmetria dei nostri "alleati"

Dopo averci depredato oggi ci dicono che non dobbiamo fare affari col Dragone: i nostri asset li vogliono loro. Ma Germania e Francia sono anni che hanno rapporti di business con Pechino

Chiariamo subito una cosa: sul fatto di avere o non avere un Memorandum of Understanding (MoU) non siamo né favorevoli né pregiudizialmente contrari. Gli accordi commerciali tra stati si fanno da sempre e, si spera, che chi negozi per l'Italia faccia il bene del suo popolo. Cosa non scontata viste le esperienze recenti e passate.
Detto questo, ci fa sorridere il fuoco di sbarramento mediatico sulla possibile firma di un MoU tra Italia e Cina.
Già, perché all'estero chi strepita maggiormente sono i Paesi che un MoU l'hanno firmato da tempo. Giusto per dare un'idea, negli anni numerose volte la cancelliera Merkel si è recata in visita a Pechino con al seguito nutrite delegazioni di imprenditori. E tutte le volte sono tornate a casa con un cospicuo numero di contratti che coprivano quasi ogni settore. La stessa cosa si può dire della Francia, attivi in Cina da sempre.
Peraltro, è ironico pensare che proprio i due Paesi che maggiormente hanno fatto shopping delle nostre aziende, dei nostri campioni nazionali, pretendano oggi che l'Italia non possa essere terra di investimenti esteri da parte della Cina.

Forse vorrebbero per sé anche le ultime briciole, visto che dal governo ipereuropeo di Monti ad oggi abbiamo perso oltre il 25% del patrimonio industriale. Ovviamente, la reciprocità praticamente non esiste, come ben testimonia la vicenda Fincantieri e l'ignavia delle istituzioni europee.
Si può capire la posizione americana, soprattutto se letta in chiave NATO e quindi di security. Ma è inaccettabile quella dei Paesi della UE, tenendo conto che di accordi MoU molti di loro già ne usufruiscono.
Peraltro, Xi Jinping e la sua delegazione dopo l'Italia (21-23 marzo) visiterà proprio la Francia di Macron, con cui non discuteranno certamente di raffinati rituali del the, o le proprietà terapeutiche del ginseng.
Certamente, fare affari (di stato) con la Cina non è proprio una passeggiata. Specialmente per un Paese con un debito pubblico come il nostro, soggetto quindi a speculazioni. Sappiamo per amara esperienza dal 1992 in poi cosa significa svendere i gioielli di famiglia causa attacco dei mercati. E, per fortuna, qualcuno è rimasto in cassaforte. Parliamo di aziende partecipate dallo Stato come Leonardo-Finmeccanica, Eni, Enel, ma anche di porti o le concessionarie di utility (acqua, luce e gas).


Peraltro, sono proprio il tipo di asset su cui in molti avrebbero da tempo messo gli occhi addosso e che adesso non vorrebbero mai e poi mai (per il nostro bene) che finissero in mani cinesi.
Noi non siamo a favore di un MoU che vada a cedere pezzi di Stato, magari con la scusa di abbattere il debito pubblico. Anzi, su determinati asset strategici ci vorrebbe una rigida legge che ne impedisca a chiunque l'alienazione.
Però se si arrivasse ad un accordo che con le dovute cautele, contromisure e accorgimenti, consentisse ai due Paesi di avere entrambi benefici, magari nell'export di prodotti alimentari, non ci sentiremmo di bocciarlo preventivamente. La Germania ha per esempio - tra gli altri - un accordo sull'Industria 4.0. Qualcosa che implica livelli di sicurezza e di know how decisamente maggiori rispetto ai prodotti dell'agricoltura.
Crediamo quindi che se l'Italia firmasse un MoU che, per esempio, non includesse il tema 5G, ma che consentisse alle nostre aziende di avere un maggior accesso ad un mercato vasto come quello cinese, potrebbe anche non essere un male come in tanti scrivono.
Certamente, nel caso di investimenti diretti da Pechino occorrerà vigilare che le nostre industrie non vengano delocalizzate, o che le infrastrutture rimangano sotto il nostro controllo, pur essendo consapevoli che nessuno regala soldi gratis.


E la Cina sta ampliando la sua sfera di influenza in tutti i continenti, dall'Africa all'Oceania al Sud America.
Però, a tutti coloro che stanno strepitando sul MoU italo-cinese, vorremmo sommessamente far notare che fino a pochissimi anni fa si inneggiava ai paperoni arabi e russi che venivano a far shopping - non solo nei negozi - da noi. Asset industriali, finanziari e immobiliari che sono passati di mano senza che nessuno dicesse nulla. Anzi.
Persino una squadra di calcio come il Milan è stata per poco di proprietà di un cinese, venduta da un gruppo il cui patron, che è anche capo di un partito, oggi spara a zero proprio su potenziali vendite a Pechino.
Asimmetrie si diceva.

Claudio Gandolfo


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