Un fattore significativo in questa rivalutazione è costituito dagli Stati Uniti. I prezzi del petrolio più alti si sono tradotti in prezzi più alti della benzina negli USA, che sono passati da 2,11 dollari per gallone lo scorso gennaio a oltre 3,00 dollari per gallone. Gli americani percepiscono il prezzo della benzina come una tassa più che un fattore legato a domanda e offerta.
Dunque, in vista delle elezioni di mid-term, Donald Trump, che vuole evitare che gli elettori pensino che il governo stia aumentando le tasse (o che ci sia una riduzione dei benefici della riforma fiscale per i consumatori), ha esercitato pressioni sull'Arabia Saudita per svincolare ulteriori scorte a prezzi inferiori. L'Arabia Saudita, che dipende fortemente dal sostegno degli Stati Uniti per la propria agenda regionale, è felice di acconsentire, perché le sue scorte di petrolio sono accessibili in modo facile ed economico, quindi ha poco da temere da prezzi leggermente inferiori.
D'altro canto, anche la Russia ha interesse ad aumentare la produzione. Il Paese ha aumentato la propria capacità produttiva negli ultimi anni. Ciò significa che potrebbe portare la produzione a 400.000 bpd in brevissimo tempo e alcuni segnali indicano che la produzione di giugno sia già arrivata a 100.000 bpd.
Il sistema fiscale russo permette al governo di partecipare ai profitti derivanti dal petrolio all'aumentare dei prezzi, fino a quando non vengono superati i 70 dollari. A quel punto le entrate pubbliche aumentano solo all'aumentare della produzione petrolifera. Le compagnie petrolifere russe sono ansiose di evitare ulteriori aumenti dei prezzi, che favorirebbero l'aumento della produzione statunitense. Non vedono il senso di limitare le proprie scorte favorendo, in questo modo, un aumento della produzione statunitense, fattore che in ultima analisi aumenterà l'offerta e indebolirà i prezzi. Sia il governo che le compagnie petrolifere sono pertanto allineati.
Tutto ciò significa che gli interessi della Russia e dell'Arabia Saudita - i due maggiori produttori tra i firmatari dell'accordo di Vienna - sono ora allineati nella direzione di un graduale aumento della produzione. I due Paesi hanno raccomandato un aumento un'offerta di circa 750.000 bpd alla riunione OPEC. E sono riusciti in questo intento prendendo nuovamente in prestito il linguaggio da banca centrale e "riducendo" a livelli più moderati le attuali restrizioni alla produzione, per poi monitorare i dati prima di aumentare l'offerta.
La maggior parte dei rialzisti del petrolio ritiene che il prezzo dovrebbe essere a circa 80 dollari al barile data l'entità dei problemi geopolitici nel mondo, sostenendo che tali tensioni pesano per circa 15-20 dollari sul prezzo per barile. Due delle maggiori questioni geopolitiche che in questo momento incidono sui prezzi sono il ritorno delle sanzioni verso l'Iran e il timore di un completo esaurimento delle forniture venezuelane.
Tuttavia, le sanzioni avranno un impatto relativamente modesto, di circa 200.000-350.000 bpd, sulla produzione iraniana e i creditori del Venezuela, ossia Cina e Russia, non permetteranno al Paese di chiudere semplicemente la produzione, poiché pretendono che i loro prestiti vengano rimborsati. La combinazione di questi fattori, unitamente al previsto aumento dell'offerta, dovrebbe portare a un assestamento dei prezzi del Brent.
Non dobbiamo infine sottovalutare i risultati ottenuti da Arabia Saudita e Russia grazie all'accordo di Vienna. Sono riusciti a influenzare i prezzi tagliando leggermente la propria produzione per sostenere i membri più deboli come la Libia e la Nigeria e poi immettendo più barili sul mercato per bilanciare le interruzioni di fornitura da paesi come Venezuela e Iran. Questo è esattamente ciò che volevano fare, ma apportare queste modifiche ha comportato un'enorme quantità di lavoro dietro le quinte. Potrebbe essere un rapporto difficile, ma questo deve essere considerato un successo.
Bob Minter, Investment Strategist di Aberdeen Standard Investments
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