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10/02/2016

economia

Come affrontare il mercato orso

Burgess (Columbia Threadneedle): gli investitori non devono farsi prendere dal panico, ma devono piuttosto accettare che il 2016 sarà caratterizzato da uno scenario di crescita modesta e rendimenti contenuti, con margini societari penalizzati

I mercati ribassisti sono generalmente definiti tali quando un'ampia gamma di indici arretra di almeno il 20% rispetto ai più recenti picchi. Al momento della redazione, l'indice FTSE 100 si colloca a quota 5.673, il 20,3% in meno rispetto al picco di 7.122 raggiunto ad aprile 2015, mentre il Dow e l'MSCI AC World seguono a poca distanza. Se si definisce ribassista anche un mercato in cui gli investitori devono aspettarsi ulteriori ondate di vendite, allora probabilmente siamo davvero in balia dell'orso.
Paradossalmente, i ribassi del mercato potrebbero essere innescati dalle politiche economiche mirate a stabilizzare le economie mondiali. La volatilità è rimasta artificialmente bassa negli ultimi anni grazie in larga parte al quantitative easing (QE), mentre i mercati si sono adagiati nella convinzione che la modesta crescita degli utili sarebbe continuata e che i prezzi degli attivi sarebbero saliti, trainati dal QE.
Come ho scritto in passato, i mercati "dormivano sonni tranquilli attingendo alla coppa del QE", ma i recenti eventi indicano che forse ora i mercati sono sazi, e che quindi non ha più importanza se la coppa sia vuota o piena.



Questo non dovrebbe sorprendere gli investitori

Il rialzo dei prezzi degli attivi finanziari dopo i minimi raggiunti durante l'ultima crisi finanziaria è stato notevole; si può anzi dire che si sia trattato di uno dei periodi più redditizi per gli investitori. Nei sei anni terminati il 31 marzo 2015 il mercato azionario statunitense ha ad esempio conseguito i più alti rendimenti della sua storia.
La crisi del debito greco ha costretto i mercati a fermarsi e a prestare attenzione, ricordando loro che le fasi rialziste non durano per sempre, e a dicembre la Federal Reserve statunitense ha avviato un ciclo di inasprimento monetario, eliminando uno dei principali fattori trainanti dei mercati finanziari. L'era della reflazione dei prezzi degli attivi, alimentata da valutazioni post-crisi eccessivamente basse e dalle aggressive politiche espansive delle banche centrali, è terminata e non possiamo più attenderci che i rendimenti siano supportati dal QE o da altre dinamiche di aumento delle valutazioni.
A livello globale, le stime sugli utili sono inferiori ai livelli degli ultimi cinque anni mentre i prezzi sono molto più alti e la volatilità, sebbene elevata e in aumento, non ha ancora raggiunto i livelli che precedono il crollo né quelli registrati nel 2008.



Il ruolo della Cina

La Cina naturalmente rimane una delle principali fonti di volatilità. L'economia cinese sta rallentando mentre il paese tenta disperatamente di ritrovare un equilibrio (anche se negli ultimi tempi il rallentamento non è stato così pronunciato come si temeva; il recente dato trimestrale sul PIL ha ad esempio indicato una crescita del 6,9%, leggermente superiore alle aspettative di molti analisti). Il rallentamento cinese ha già causato il deprezzamento della valuta e problemi al mercato azionario, che si sono trasmessi anche ad altri mercati asiatici e in tutto il mondo.
I timori sulla Cina non sono tuttavia una novità e in effetti suggeriamo da tempo che il continuo rallentamento dell'economia cinese avrebbe comportato difficoltà non solo per gli investitori dei mercati asiatici ed emergenti, ma anche per i mercati finanziari a livello globale.

Non è questo il momento di gettare la spugna

Anche la forza del dollaro, la liquidità, gli spread creditizi e le prospettive di una Brexit continuano a destare grandi preoccupazioni.


Tuttavia non è questo il momento di gettare la spugna, come hanno suggerito alcuni catastrofisti e analisti amanti del pugilato.
Gli investitori devono essere consapevoli che il 2016 sarà caratterizzato da uno scenario di crescita modesta e rendimenti contenuti, con margini societari penalizzati dalla debolezza della domanda finale e dall'eccesso di capacità in diversi settori.
Lo scenario relativo ai mercati emergenti resta difficile, soprattutto per quei Paesi che hanno costruito le loro economie sul soddisfacimento della domanda cinese di commodity. Per questi mercati le prospettive sono cupe e l'indebolimento delle valute potrebbe non contribuire a stimolare la domanda di esportazioni dei mercati emergenti nei paesi in cui la domanda di consumatori e società è modesta. In uno scenario mondiale in cui gli USA attuano un inasprimento della politica monetaria mentre altre banche centrali mantengono un orientamento accomodante, il dollaro dovrebbe rafforzarsi, a parità di tutte le altre condizioni. Ciò si tradurrà probabilmente in ulteriori difficoltà per le economie emergenti, data la forte correlazione negativa tra il dollaro e questi mercati.



I gestori attivi che attuano strategie di multi-asset allocation sono ben posizionati per sopportare shock a breve termine sui mercati. L'alta marea del QE globale che finora ha tenuto a galla tutte le barche comincerà a scendere, rendendo opportuna una differenziazione all'interno delle asset class e tra di esse. In tale contesto, l'enfasi sulle valutazioni e sui fondamentali o su un approccio d'investimento tradizionale dovrebbe rivelarsi più importante che negli ultimi anni, durante i quali i mercati sono stati sostenuti da una liquidità abbondante e crescente.
Gli investitori a più lungo termine sanno che quella che può essere avvertita come una situazione di emergenza nel breve termine potrebbe non avere la stessa importanza a distanza di alcuni anni, per cui un approccio d'investimento tradizionale può essere particolarmente appropriato nell'attuale contesto volatile.
Gli indicatori di stabilità aiuteranno a tenere a bada l'orso
Per poter tenere a bada l'orso vorremmo tuttavia ravvisare alcuni indicatori di stabilità. Se la Cina e i suoi investitori riescono ad accettare che il paese debba riequilibrare la propria economia, il mercato azionario potrebbe esibire un andamento meno altalenante.


Anche lo stabilizzarsi dei prezzi petroliferi sarebbe positivo, ma è difficile decifrare la situazione in Medio Oriente, caratterizzata dalla continua disponibilità dell'Arabia Saudita a produrre petrolio anche agli attuali prezzi e dalle sue dispute con l'Iran. Con il calo della domanda, dovuto in parte all'inondazione del mercato da parte dell'olio di scisto, l'eccesso di offerta resta un problema chiave e bisogna vedere come evolveranno i fattori geopolitici in gioco.
Sebbene le attese di ulteriori rialzi dei tassi d'interesse siano state leggermente posticipate, continuano probabilmente a costituire un rischio chiave. Gli attuali indicatori macro e societari -" crescita e inflazione modeste, domanda finale sottotono e prospettive sugli utili societari in deterioramento -" non sono certo quelli che ci si attenderebbe nel momento in cui la principale banca centrale del mondo, ossia la Federal Reserve, sta avviando un ciclo di inasprimento dei tassi d'interesse. Ovviamente la Fed non vede l'ora di dare il via alla normalizzazione dei tassi, ma se si osservano i dati singolarmente è difficile giungere alla conclusione che la Fed abbia la necessità d'innalzare i tassi in modo rapido o aggressivo.


I recenti dati sull'occupazione negli USA sono solidi, ma occorre contestualizzarli: i tassi di partecipazione negli Stati Uniti restano i più bassi degli ultimi 40 anni. I mercati si aspettano l'intervento della Fed e noi prevediamo che il FOMC procederà al rialzo dei tassi in modo controllato e prudente. Se la Fed perde il controllo dei messaggi che invia e le autorità politiche si mostrano incoerenti, i mercati potrebbero reagire bruscamente.
Quali sono le implicazioni di tutto questo dal punto di vista dell'asset allocation? In termini di valutazioni, continuiamo a preferire le azioni alle obbligazioni e per il momento prevediamo di mantenere questo posizionamento nei nostri portafogli di asset allocation, benché con minor convinzione rispetto al passato. Resta il fatto che, osservando il loro andamento storico sul più lungo termine, le azioni continuano ad essere più interessanti rispetto alle obbligazioni.

Mark Burgess, Chief Investment Officer EMEA e Responsabile azionario globale di Columbia Threadneedle Investments


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