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08/10/2014

economia

Torna la guerra delle valute?

Paganini (FXCM): Dalla Nuova Zelanda all'Australia, dalla Svizzera alla Gran Bretagna, passando per l'eurozona e gli USA, si è formato un puzzle di difficile e imprevedibile soluzione

Non che si sia mai veramente esaurita. Forse assopita. Ma ora è il caso di rispolverarla. La guerra delle valute è tornata a rendersi esplicita, grazie all’ultima mossa della Reserve Bank of New Zealand che ha pubblicato uno statement dal titolo “Why the NZD exchange rate in unjustified and unsostainable” (Perché il tasso di cambio del dollaro neozelandese è ingiustificato ed insostenibile), spiegando come il valore di sopravvalutazione della divisa locale sia preoccupante e come il tasso di cambio reale non abbia seguito gli sviluppi economici mondiali (per esempio, il prezzo del latte da febbraio 2014 è sceso del 45% mentre il tasso di cambio effettivo è stato dell’1% superiore alla rilevazione tendenziale relativa allo stesso periodo).

Inoltre, scopriamo che la RBNZ ha messo in circolazione sul mercato, nel corso del mese di agosto, 521 milioni di dollari neozelandesi, prendendoli dalle proprie riserve e vendendoli ai diversi acquirenti al fine di deprezzare il cambio contro il dollaro americano, un cambio che secondo il primo ministro dovrebbe aggirarsi intorno agli 0,6500 dollari per dollaro neozelandese.



Se a questo aggiungiamo la vicina Australia, che ripete nei propri statement come il valore della divisa della Terra dei canguri sia eccessivamente alto per poter garantire una crescita economica adeguata, e includiamo la considerazione che stiamo parlando degli unici due carry trade possibili tra le major (valute principali), comprendiamo come le discese cui abbiamo assistito potrebbero non essere terminate. Il detto “si sale con le scale e si scende con l’ascensore” vuole spiegare proprio i comportamenti tipici di questi investimenti che sfruttano i differenziali di tasso tra due valute, che quando terminano i rialzi mettono a segno vendite repentine che vanno a riaggiustare i valori distorti di equilibrio tra la valuta interessate – in questo caso i dollari neozelandese ed australiano – ed il dollaro americano.
Gli altri pezzi del puzzle non sono da meno.
Il governatore della BoJ Kuroda ha dichiarato espressamente che uno yen più debole sarebbe desiderato al fine di migliorare le condizioni economiche interne del Paese del Sol Levante, il quale sta vivendo un aumento di inflazione e che continua a vedere iniettati yen secondo il piano di quantitative e qualitative easing intrapreso.



La Banca Centrale Svizzera ha dichiarato più volte di essere pronta a tutto (anche a tassi negativi) per evitare un rafforzamento del franco oltre il valore di 1,20 franchi per euro al fine di difendere il Paese dalla deflazione e di sostenere le esportazioni.
La Bank of England, a nostro parere, ha giocato bene la sua partita, in vista dei futuri rialzi dei tassi di interesse, andando a creare aspettative che hanno generato acquisti iniziali, seguiti da pesanti vendite quando tali aspettative sono state disattese che hanno portato il valore della sterlina a raggiungere livelli dai quali si potrà ripartire anche in maniera forte quando avverranno i rialzi, andando a recuperare i massimi abbandonati a luglio prima di pensare a superare la quota di 1,8000, che sarebbe stata presumibilmente raggiunta in maniera agevole se non si fossero verificati questi aggiustamenti del valore del pound sul dollaro.
Sull’euro non aggiungiamo altro, la situazione la conosciamo bene e nel caso in cui Draghi dovesse decidere di implementare un QE europeo, l’euro entrerebbe di diritto all’interno delle svalutazioni ricercate. Gli americani riusciranno a sostenere ancora per molto questo rafforzamento globale del dollaro?

 

Matteo Paganini, Chief Analyst DailyFX/FXCM

 

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