Versione stampabile dell'articolo del magazine del 23/01/2019 | Link alla versione sfogliabile


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Crisi: non è più una ipotesi, si tratta solo di quando arriverà

E molti indicatori economici rilevano che potrebbe già esser cominciata. A partire proprio dall'eurozona

I tanti outlook di fine anno avevano tutti un fattore comune: indicavano che con l'anno appena finito a livello internazionale avevamo avuto il ciclo di espansione più lungo mai visto. Dal 2007-08 - crisi subprime - fino al 2018 sono passati tanti, tanti anni. E come tutti i cicli, anche questo è destinato a finire. Non tutti concordano su quando scenderà il sipario. Ma se si discute sul quando, significa che la crisi prossima ventura non è più solo un'ipotesi.
A questo punto, fermo restando che il problema sarà globale, chi rischierà di più? Chi è meglio o peggio attrezzato? Da dove partirà per contagiare poi tutte le altre economie?
Nel 2008, con la crisi di Lehman Brothers l'epicentro, furono gli USA. Nel 2019, in piena epoca di trade wars, potrebbe essere la Cina, l'eurozona, oppure ancora gli USA.
La Cina, pur mantenendo una crescita annuale di oltre il 6%, sta registrando una serie di dati negativi, tanto che molti parlano di "hard landing". Il presidente Xi sta cercando in tutti i modi di sostenere l'economia, ma al prezzo di uno sforzo notevolissimo: -4,4% l'export e l'import -7,6%. Il 2018 si chiude con un avanzo degli scambi diminuito del 16,2%, a 351,76 miliardi di dollari, che riflette un più 9,9% delle esportazioni a fronte del più 15,8% delle importazioni.
Gli USA vengono da un periodo incredibile: dopo l'avvento di Trump l'economia ha sperimentato un'incredibile accelerata (grazie anche agli stimoli fiscali), arrivando ad un tasso di disoccupazione mai così basso, e con aumenti salariali. I dati ISM e PMI, oppure quelli sulle vendite immobiliari, raccontano però una storia diversa e che mostra molte più crepe di quanto sembri. Ma che gli USA siano attualmente in fase di crescita oltre il 3% è innegabile anche per i detrattori del presidente twittatore. Però c'è chi fa notare che quello trascorso è stato il peggior mese di dicembre a Wall Street dagli anni trenta?
E veniamo all'eurozona. Qui la situazione è più complessa, poiché insieme al pericolo economico aggiungiamo quello geopolitico. Il 2018 è stato un anno da dimenticare per le borse e le banche continentali. Il 2018 ha visto il DAX tedesco crollare di oltre 22 punti portandolo in territorio orso. Però dal massimo del 2018 a 13.600 al minimo intorno a quota 10.200 circa il DAX ha perso oltre il 33%. Non certo un segnale di fiducia e stabilità se contiamo anche che Deutsche Bank è uscita dall'Euro Stoxx 50, e che si parla sempre di più della fusione della medesima con Commerzbank. E poi, proprio quella che dovrebbe essere la locomotiva d'Europa, con l'8% e passa di surplus commerciale, si ritrova alle prese con il crollo della produzione industriale (-1,9% di mese e -5,1% su anno), di fatturato e ordinativi, e un Pil in contrazione (di fatto è già recessione). Forse se investisse buona parte del surplus internamente riuscirebbe ad invertire la tendenza, con grande sollievo anche dei partner, magari potrebbe mitigare i dazi di Trump, ma da questo orecchio non ci sentono. Ma gli elettori si sono stufati della Merkel e della Grosse Coalition, e lo hanno già dimostrato.
La Francia di Macron ha già annunciato che - come al solito - sforerà parametri di Maastricht, ha un doppio disavanzo sulla bilancia estera dei pagamenti e su quella interna ma soprattutto, è alle prese con la rivolta dei gilet gialli, che non sembra fermarsi. Anzi, ad ogni appuntamento settimanale sembra rafforzarsi e coinvolgere sempre più persone. Probabilmente se la Francia non godesse dei benefici dell'ex Franco CFA (che draga ignobilmente risorse alle ex colonie africane), la crisi sarebbe ancora maggiore. La popolarità del presidente è talmente bassa che tra poco saremo a livelli di prefisso telefonico.
In Italia il governo gialloverde sperimenta cosa significa fare una coalizione tra due forze dalle visioni opposte su molti punti. Non passa giorno che i media non rimarchino qualche differenza accendendo inutili e infiniti dibattiti. Certo, non mancano dissidenti, dilettanti, deputati o senatori (e anche qualche ministro) un po' naive, ma nel complesso, al netto di tutto il corpus di leggi e decreti ereditati dal governo precedente, offre l'idea di muoversi nella direzione uscita dalle urne. Certo, avere una sorta di "libro dei sogni" e pochi soldi e tempo per realizzarli è complicato. Anche perché dovendo operare delle scelte, ovviamente ci sarà sempre qualcuno che non sarà accontentato e che quindi protesterà. L'esecutivo getta acqua sul fuoco affermando che il DEF appena licenziato è solo l'inizio di una legislazione che dura 5 anni. E quindi occorre pazienza. Vedremo la sua tenuta su tematiche divisive come la TAV. Nel frattempo i numeri del Paese sono impietosi: produzione industriale -1,6%, disoccupazione al 10,5% e debito pubblico alle stelle, così come la tassazione.
A differenza però di Germania e Francia, quello gialloverde è il governo col più alto gradimento in Europa (circa il 60%) e, da un sondaggio Europe Elects, se le votazioni per l'europarlamento avvenissero oggi, la Lega sarebbe il primo partito, con 26 seggi, davanti alla CDU tedesca con 24 seggi, al polacco PiS con 23 ed al Movimento Cinque Stelle con 22.
Ecco, questo è quello che si definisce un vero fattore geopolitico di cambiamento.
Tornando quindi alle nostre domande di apertura, e se la crisi - visti i numeri dell'economia - si facesse sentire per prima proprio in Europa?
Magari a cavallo delle elezioni, quando le commissioni sono più deboli? E con l'ineffabile Draghi a fine mandato, chi comanderebbe alla BCE? A Brexit avvenuta, sicuri che nessun Paese abbia la tentazione di urlare "ognuno per sé e Dio per tutti"?

Claudio C. Gandolfo