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_Gennaio2013

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La rivoluzione dei manager

Secondo Manageritalia occorre un “nuovo” lavoro per avere piu’ produttivita’, benessere, occupazione e crescita, ma per un vero cambio culturale è necessario agire tutti insieme

Oggi in Italia per avere più produttività, occupazione e benessere è necessario un nuovo lavoro. È necessario cambiare profondamente regole, cultura e comportamenti del mondo del lavoro. Insomma, un profondo cambiamento di un mondo ormai ingessato e legato a normative e comportamenti da ferriera. E in tutto questo i manager hanno tanto da dire, dare e fare. Ma perché finalmente si abbia un vero cambio culturale è necessario agire tutti insieme.
Cosa fare? Leggi, normative e accordi tra le parti sociali possono e debbono facilitare questa rivoluzione, che va però fatta nelle aziende e nei modi di lavorare o meglio di (col)lavorare. Questo dicono i manager e anche i lavoratori italiani. La loro ricetta (secondo due indagini AstraRicerche e Duepuntozero DOXA per Manageritalia 2012) è: valutare le persone su merito e risultati raggiuti (96% manager, 88% italiani), gestirle per obiettivi (93% e 81%), aumentare la formazione (93% e 91%) e la gestione manageriale (92% e 72%), e avere un’organizzazione aziendale meno gerarchica e più collaborativa (87% entrambi).

E per finire, sempre tra i must, maggiore conciliazione tra vita lavorativa e personale (85% entrambi) e introduzione di programmi di welfare aziendale (77% e 81%).
Valutare e retribuire le persone su merito e risultati raggiunti e collaborare in Italia lo si fa poco. Gestire le persone per obiettivi, misurare i risultati raggiuti e retribuirle di conseguenza è in Italia ancora una rarità: capita, secondo il rapporto OD&M Consulting sulle retribuzioni in Italia, al 60% dei dirigenti, al 49% dei quadri, al 24% degli impiegati e al 18% degli operai. E capita quasi esclusivamente in quelle aziende che hanno gestione e cultura manageriale. Non a caso, una parallela indagine fatta da Manageritalia solo sui direttori del personale, quindi su quelle aziende che per cultura e know how sono più propense a gestire per obiettivi e valutare sui risultati raggiunti, dice che hanno una parte di retribuzione variabile legata ai risultati il 92% dei dirigenti, il 90% dei quadri e solo il 70% degli impiegati e il 37% degli operai.
Anche gestione per obiettivi, formazione e collaborazione non spiccano di certo e troppe aziende hanno ancora, a detta degli stessi manager, strutture organizzative top down (70,8%, indagine CFMT 2011).

Una situazione che vogliono cambiare visto che si dicono convinti che il loro ruolo sia fondamentale per favorire innovazione e collaborazione all’interno e all’esterno dell’azienda.
Per quanto riguarda la gestione manageriale poi, non ci siamo proprio. L’Italia, come ben sappiamo e constatiamo anche in termini di competitività, soffre di scarsa presenza e competenza manageriale nelle aziende. Nel privato abbiamo solo 32mila aziende che hanno almeno un dirigente per un totale di appena 120mila dirigenti. Insomma, in totale 0,9 dirigenti ogni cento lavoratori dipendenti, contro i 3 di Francia e Germania.
Quando poi il management c’è, non è sempre scelto, trattenuto e remunerato per competenze, meriti e risultati raggiuti, ma piuttosto per essere un familiare/conoscente dell’imprenditore o fedele allo stesso, e questo in Italia avviene nelle imprese familiari molto più (66,3%) che all’estero, dove la maggioranza delle aziende familiari si avvale comunque di manager esterni.
Tutto questo, mentre è provato che le imprese con un management scelto e retribuito sulle performance hanno maggiore crescita di vendite (+14% nell’arco di tre anni rispetto alla media delle aziende con struttura manageriale), occupazione (+24%) e ritorno sul capitale impiegato (ROCE +14%) rispetto alle aziende che hanno un management familiare e/o valutato sulla fedeltà (indagine di Fondazione R.

DeBenedetti con alcuni professori della London School of Economics 2008). È quindi abbastanza logico che vada ancora peggio per le aziende, in Italia tantissime, che non hanno management di alcun tipo.

Produttività fa rima con managerialità

Allora, se è vero come è vero che in Italia la managerialità è scarsa e presente solo in alcune dimensioni e situazioni d’impresa (quelle imprese non a gestione familiare e presenti sui mercati globali), non è strano trovare che la produttività sia crescente al crescere della dimensione d’impresa e maggiore nelle imprese che competono sui mercati internazionali. A ribadire il peso, non unico, ma determinante, sulla produttività di una valida gestione manageriale, la produttività delle nostre aziende comparata con quella dei principali concorrenti europei è perdente in tutte le dimensioni d’impresa, esclusa quella medio grande (grafico 1). Proprio quelle imprese presenti e competitive sui mercati mondiali, le cosiddette multinazionali tascabili, dove sempre più l’imprenditore e i suoi familiari si sono affidati a bravi manager esterni. Luxottica, Geox, Autogrill ecc. per fare alcuni nomi.


 
Il welfare aziendale (flessibilità lavorativa, servizi e facilitazioni previdenziali, finanziarie e nella vita quotidiana) è un’araba fenice. Tutti, i manager (85%) e gli italiani (92%), sono convinti che il welfare aziendale sia utile per migliorare benessere e produttività dei lavoratori e dell’azienda. Pochissimi però lavorano in aziende che l’hanno già introdotto (20% i manager e 10% italiani) o che pensano di farlo nel prossimo futuro (10% manager e 22% italiani). La maggioranza, invece, lavora (68% manager e 67% italiani) in aziende che non l’hanno e non pensano di introdurlo in futuro. Un vero peccato perché tantissimi (79% manager e 80% italiani) sostengono che così si possono remunerare i dipendenti in modo più utile ed economico (AstraRicerche e Duepuntozero DOXA per Manageritalia 2012).
Insomma, la situazione critica della nostra economia e dei suoi attori a livello di competitività è ben descritta nell’abstract di una recente ricerca di Banca D’Italia (Il gap innovativo del sistema produttivo italiano: radici e possibili rimedi, aprile 2012). “Il ritardo dell\'Italia nell\'attività innovativa rispetto ai principali paesi industriali risente della frammentazione del sistema produttivo in molte piccole imprese che hanno difficoltà a sostenere i costi elevati insiti nella ricerca e sviluppo e ad assumersene i rischi.


Vi si sommano carenze di capitale umano nelle funzioni manageriali e di ricerca e un\'eccessiva flessibilità dei rapporti di lavoro che riduce l\'incentivo a investire in attività di formazione. La carenza di risorse finanziarie costituisce un ulteriore ostacolo; il capitale azionario, più adatto rispetto a quello di debito a finanziare l\'innovazione, è meno diffuso che in altri paesi. Le risorse pubbliche spese in Italia per incentivi alle imprese hanno conseguito risultati modesti. Per accrescere la capacità innovativa sono opportune azioni per favorire la crescita dimensionale delle imprese, l\'adozione di forme di gestione più manageriali, l\'aumento del grado di capitalizzazione. È importante sostenere lo sviluppo di intermediari di venture capital, ancora relativamente poco diffusi in Italia. Il disegno e la gestione degli incentivi pubblici all\'innovazione necessitano di miglioramenti”.
Allora perché non cambiare, rottamare il vecchio lavoro e costruirne uno nuovo che, forte di una maggiore e più diffusa managerialità, dia più produttività e benessere? I manager possono e devono fare tanto, ma non possono fare tutto e soprattutto non possono farlo da soli.







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