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Luglio_2013

editoriale

Britannia 1992, Mosca 2013: se la storia si ripete

Le parole del ministro Saccomanni al G20 riportano indietro a fatti che ricordano il “Sacco d’Italia”. Anche stavolta tutti mirano alle nostre eccellenze

Quando in Italia si parla di privatizzazioni, la mente non può evitare di andare al 1992, quando il 2 giugno a bordo del panfilo Britannia al largo di Civitavecchia, si trovarono Mario Draghi (allora Direttore Generale del Tesoro), Carlo Azeglio Ciampi (Governatore della Banca d’Italia), e un nutrito numero di rappresentanti della finanza anglosassone, oltre che esponenti degli ambienti industriali e politici italiani.
Il Corriere della Sera dell’epoca scrisse che l’incontro servì a: “un centinaio di manager pubblici e banchieri tra cui i presidenti di ENI, INA, AGIP, SNAM, ALENIA e Banco Ambrosiano, alti funzionari dello Stato e l\'ex ministro del Tesoro Nino Andreatta per spiegare agli inglesi come impossessarsi di una parte dei 100mila miliardi derivanti dalle privatizzazioni”. Una montagna grande come l’Himalaya di soldi.
Giuliano Amato sarebbe diventato Primo Ministro pochi giorni dopo l’incontro sul panfilo (e Romano Prodi capo dell'IRI dal 1993) e applicò subito alla lettera le risultanze dell’incontro: trasformare in SpA, come scelta obbligata ma lungimirante, alcune delle maggiori industrie statali del Paese (IRI, ENI, INA ed ENEL).

Naturalmente, i media avevano provveduto a creare una ansiogena e ben orchestrata campagna secondo cui tutto ciò era necessario “per entrare in Europa”. Poco tempo dopo la sua nomina Amato fece quello per cui sarà sempre ricordato: a causa di un attacco speculativo di Soros sulla lira, bruciò inutilmente una montagna di dollari delle riserve della Banca d’Italia, dopo però avere operato un prelievo forzoso dell’8 per mille dai conti correnti degli italiani. Naturalmente, uscimmo lo stesso temporaneamente dallo SME e svalutammo la nostra moneta. L’anno dopo l’inflazione fu poco più che cosmetica e in cambio il PIL (grazie anche all’export), si impennò.
Nel frattempo però una cospicua parte degli asset statali italiani (know how compreso) erano diventati stranieri o svenduti a prezzo di saldo ad impreditori italiani.
Pochi anni dopo, con il governo Prodi, assistemmo a una seconda tornata di “privatizzazioni”. Questo sempre perchè dovendo mettere le basi dell’euro, e in nome delle liberalizzazioni, dovevamo alienare ancora qualche "gioiello di famiglia", altre aziende di stato.

E ci ricordiamo tutti molto bene cosa accadde. Specialmente con Telecom, che da protagonista internazionale del mondo delle TLC, si ritrovò nel giro di poco tempo ad avere una enorme montagna di debiti.
E siamo ai giorni nostri. L’Italia è ancora alle prese con il suo mostruoso debito pubblico (che nel frattempo non è sceso, anzi), si ventila da più parti di un prelievo forzoso dai conti correnti (stile Cipro) e, avendo messo in Costituzione il Fiscal Compact, dovremmo tirar fuori dal cilindro (le tasche degli italiani) circa 50 miliardi di euro l’anno per i prossimi 20 anni. Inoltre, in piena crisi economica, con la spada di Damocle dello spread, e con la disoccupazione ai massimi livelli, l’Europa ci chiede più rigore e riforme. il tutto rilanciato a gran voce dai media. 
In questo quadro, il ministro Saccomanni da Mosca, al G20, in una intervista a Bloomberg TV ha affermato che “stiamo considerando anche la possibilità di ridurre le quote pubbliche sulle società partecipate". E alla domanda se questo comporti vendere pacchetti azionari di ENI, ENEL e Finmeccanica, aggiunge: "queste società sono profittevoli e danno dividendi al Tesoro, quindi dobbiamo considerare anche la possibilità di utilizzarle come collaterale per gli schemi di riduzione del debito pubblico su cui stiamo ragionando".


In pratica, annuncia la vendita di altri (gli ultimi?) gioielli di famiglia. Molti media, anzichè allarmarsi, hanno parlato di “tabù infranto” o addirittura hanno pubblicato calcoli possibilistici. Ma solo qualcuno è uscito dal coro denunciando una svendita di asset. Per il resto, mancavano solo gli applausi per l’idea geniale che ci avrebbe tirato fuori di guai. Proprio come nel 1992.
Ora, la storia recente ci illustra chiaramente che l’Italia, a differenza di altri Paesi europei ma non solo, non riesce a gestire in modo profittevole le privatizzazioni. Per mille motivi, talvolta fin troppo scoperti. Quello che ci lascia particolarmente perplessi è come si possa oggi pensare di alienare quel poco rimasto di redditizio del patrimonio industriale pubblico, spesso eccellenza nel mondo, al solo scopo di abbassare un debito (per rimanere nell'euro) che dovrebbe essere aggredito in ben altri modi. Magari, svendere per svendere, partendo dagli asset immobiliari improduttivi, prima che dalle aziende sane. Se non altro, il know how tecnologico e i brevetti rimarrebbero di nostra proprietà.
Già, perchè se vendessimo anche le partecipazioni in queste aziende strategiche, diminuirebbero parimenti gli introiti del Tesoro, che dovrebbero esser comunque ripianati.


A meno di non ridurre le spese dello stato. In una fase di recessione e contrazione de Pil la svendita degli asset aziendali pubblici porterebbe ben poco più di un sollievo momentaneo, ma nel medio termine ci renderebbe ancora più poveri e con minor capacità di competizione sui mercati internazionali. E dal prossimo anno non saranno poi più dispobilbili a bilancio. Una situazione che andrebbe di pari passo con la continua acquisizione di nostri brand privati da parte di capitali internazionali. Di questo passo - con il protrarsi di questa congiuntura globale, il credit crunch e debiti statali non pagati, ecc. - le aziende vitali prima o poi verranno cedute agli stranieri che con pochi capitali fanno shopping delle nostre eccellenze, che non sono infinite. E faranno di conseguenza morire anche il loro ecosistema di subfornitura. Poi toccherà alle utilities. A quel punto, il “Sacco d’Italia” sarebbe stato completato.
Speriamo che per Saccomanni si sia trattato di “voce dal sen fuggita”. Non vorremmo che il "ce lo chiede l'Europa", sia in realtà il sussurrare di bionde sirene.

Claudio Gandolfo


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