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13/11/2019

economia

Imparare a convivere con la deflazione

Williams (Hermes IM): il problema giapponese sta diventando una possibilità crescente. Pur non portando a un calo generale del tenore di vita, la sfida principale sarebbe il cambiamento di mentalità necessario

Dopo un decennio, le Banche centrali che non hanno ancora raggiunto i livelli di inflazione desiderati stanno facendo nuovamente ricorso a strumenti che non avevano funzionato. La spinta del QE ai prezzi degli asset è diventata controproducente, ampliando le disparità, impoverendo la domanda e ostacolando l'inflazione. Con le Banche centrali in stato di agitazione, il rischio per i mercati deriva quindi maggiormente dal protezionismo.
Gli Anni '30 hanno fatto capire che i vincitori di una guerra commerciale sono pochi. Le forze "stagflazionarie" dovrebbero far sì che la spinta inflazionistica guidata dai costi si esaurisca da sola. In modo utile, il costo del denaro estremamente basso sta, nel frattempo, offrendo incentivi ai governi per aprire la scatola fiscale.

Deflazione: non siamo pronti per il cambiamento di mentalità

Il precedente moderno è da rintracciare nel Giappone deflazionista. La deflazione non rappresenta, storicamente, un fenomeno raro. Dal Medioevo in poi, ad esempio, il Regno Unito ha trascorso in condizione di deflazione quasi tanto tempo quanto quello trascorso in condizioni di inflazione.

È solo dalla seconda guerra mondiale in poi che la condizione di inflazione è stata considerata la norma, forse riflettendo fattori come il miglioramento del commercio globale, la legislazione in tema di lavoro, l'inclusione dei prezzi delle abitazioni, l'aspetto fiscale e le svalutazioni monetarie.
Una condizione di deflazione offre una serie di vantaggi: in un contesto dominato dalla liquidità, i risparmiatori sarebbero ricompensati rispetto a coloro che accedono al mercato dei prestiti, fornendo fondi per la capital expenditure, la produttività e la crescita salariale (il "Santo Graal" per i politici).
Se stiamo però imboccando la strada dal Giappone, avremmo tutti bisogno di un significativo cambiamento di mentalità. Per gli investitori, la rinnovata attrattiva della liquidità può esporre strumenti finanziari concorrenti che offrono premi inadeguati. Per gli asset growth, come il mercato azionario ad esempio, ciò potrebbe preannunciare un calo assoluto, ponendo un'attenzione ancora più marcata sulle variazioni relative dei prezzi all'interno delle asset class.
La reazione dei consumatori sarebbe inoltre sicuramente influenzata dalla velocità con cui diminuiranno i salari in relazione alla caduta dei prezzi al dettaglio e degli asset.

Il rafforzamento della produttività del lavoro in altri Paesi del G7 e una revisione più regolare delle retribuzioni (per il Giappone la fase di shunto in primavera) lasciano intendere una maggiore resistenza ai tagli salariali, in particolare in un contesto di crescente populismo degli Stati Uniti e nel Regno Unito, e di riforme lente nell'Eurozona. Pertanto, la pressione sui margini potrebbe essere alleviata con riduzioni dell'occupazione e/o con una maggiore flessibilità del lavoro. La chiave sarà garantire che la quota extra di risparmio sia dirottata in modo efficiente in direzione di un aumento degli investimenti e della produttività.

Quali sono i rischi?

Sono i debitori/governi che affrontano alcuni dei maggiori rischi legati alla deflazione. Il rapporto debito/Pil di Stati Uniti, Eurozona e Regno Unito sono già due volte superiori a quelli del Giappone quando fece l'ingresso nel suo "decennio perduto". Se il loro Pil nominale fosse ora frenato dalla deflazione (come accaduto per il Giappone dal 1995), anche un modesto aumento dell'1% annuo dello stock del debito porterebbe i rispettivi rapporti netti al 105%, 80% e 100% entro il 2040! Questo azzera sul nascere le speranze del governo di erodere il debito attraverso l'inflazione.



La vitamina del QE è, quindi, ancora più difficile da innescare, soprattutto perché la posta in gioco delle Banche centrali le lascia nelle condizioni di lottare per lo status quo. I precedenti degli anni 1930-1950 - quando il QE degli Stati Uniti è andato avanti senza interruzioni per 14 anni - e l'attuale dipendenza dei governi dalle loro Banche centrali suggeriscono che potremmo essere a poco più della metà del nostro programma di QE.
Nel frattempo, la sfida non è rappresentata dalla diminuzione del tenore di vita, ma dal passaggio a una psicologia deflazionistica in cui celebriamo i nostri tagli salariali se si rivelano inferiori alla caduta dei prezzi delle vacanze, auto, o casa che desideriamo. E dubitiamo che a Londra, New York, Francoforte, Parigi, Roma, ecc. siano pronti per questo!

Neil Williams, Senior Economic Adviser di Hermes Investment Management


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