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25/09/2019

economia

La crescita economica si indebolirà ancora

Müller (DWS): non ci aspettiamo una recessione negli Stati Uniti, in Cina o nell'intera Eurozona. Crediamo che la politica monetaria rimarrà espansiva, a supporto dell'economia e dei mercati finanziari

L'avevamo anticipato tre mesi fa: "Le prospettive dell'economia mondiale stanno peggiorando e l'escalation delle tensioni commerciali potrebbe innescare ulteriori downgrade." Purtroppo, è quello che sta succedendo. Per alcune economie orientate alle esportazioni, in particolare Germania e Spagna, abbiamo dovuto tagliare le previsioni di crescita per il 2019 e il 2020. Rimangono invece invariate al 2% le nostre previsioni di crescita degli Stati Uniti per il 2020, ma attualmente ci aspettiamo solo il 2,3% per il 2019, 0,2% in meno rispetto a tre mesi fa. Questa riduzione in realtà non dipende dagli sviluppi economici del 2019, bensì è dovuta a una revisione dei dati storici relativi al 2018. Quest'anno il dinamismo economico degli Stati Uniti si è indubbiamente indebolito, con la progressiva attenuazione degli stimoli legati ai tagli fiscali, ma questi sviluppi rientravano fin dall'inizio nelle nostre previsioni sul prodotto interno lordo (PIL).
In realtà, se consideriamo gli Stati Uniti singolarmente, possiamo dire che i segnali economici sono più che altro eterogenei, ma non negativi.

Il rapporto tra indicatori anticipatori e coincidenti, ad esempio, rimane prossimo all'ultimo picco raggiunto. Gli indicatori anticipatori, quali i nuovi ordini manifatturieri, aiutano a prevedere i trend futuri, mentre gli indicatori coincidenti, come il reddito personale, sono misurati in tempo reale. Quindi se il reddito personale diminuisce e gli ordini iniziano contemporaneamente a deteriorarsi, si può notare, a parità di condizioni, una riduzione di tale rapporto. Nei precedenti cicli statunitensi, questo rapporto è quasi sempre diminuito sensibilmente molto prima dell'inizio delle recessioni, mentre il pattern attuale assomiglia più da vicino ai rallentamenti congiunturali temporanei osservati in passato. Ulteriori indizi di questa situazione sono il numero crescente di lavoratori temporanei assunti dalle aziende e le condizioni finanziarie ancora ampiamente in linea con una crescita economica appena superiore al 2%.
Naturalmente si può sempre trovare qualche motivo di preoccupazione. In particolare c'è lo spauracchio della curva dei rendimenti, che ultimamente negli Stati Uniti e in altri Paesi si è invertita; questo significa, per esempio, che i rendimenti dei Treasury decennali USA sono scesi al di sotto di quelli dei Treasury a 2 anni.

In termini economici, le curve dei rendimenti invertite misurano la volontà degli investitori obbligazionari di pagare una sorta di "assicurazione contro la recessione": più è invertita la curva, maggiore sarà il premio implicito per il rischio di recessione che un investitore è disposto ad accettare. Questo però significa solamente che moltissimi investitori sono già piuttosto pessimisti, non che le loro aspettative siano necessariamente corrette. Inoltre è opportuno notare che queste curve dei rendimenti invertite sono, al limite, profezie che si auto negano, non che si auto avverano: spingendo al ribasso i rendimenti a lungo termine, i mercati obbligazionari rendono meno probabile una recessione, anche in assenza di interventi da parte delle banche centrali.
La Federal Reserve USA sembra invece intenzionata a portare avanti la sua politica di tagli preventivi, come già nel 1998, pur aspettando a imbarcarsi in un vero e proprio ciclo di riduzione dei tassi. Per i prossimi mesi prevediamo altri due tagli dei tassi di interesse. Dalla Banca centrale europea (BCE) ci aspettiamo un taglio contenuto di 20 punti base, a -60%, l'introduzione di un sistema di tiering per i depositi presso la banca centrale e una ripresa degli acquisti di attivi nell'ambito di un ampio pacchetto di misure.


Questi passi dovrebbero essere sufficienti a stabilizzare la situazione.
La Fed e la BCE si trovano entrambe in una situazione poco invidiabile. I segnali di nervosismo sui mercati finanziari e il danno all'economia reale in Paesi chiave come la Germania sono perlopiù riconducibili alle tensioni commerciali mondiali, ma come hanno fatto notare giustamente i banchieri centrali alla recente conferenza di Jackson Hole, la politica monetaria non può fare molto per alleviare i danni a lungo termine causati dalle politiche protezionistiche. Come scrivevamo l'anno scorso, adottare misure protezionistiche temporanee equivale a tassare una tecnologia altamente efficiente, mentre ricorrere a misure protezionistiche permanenti è come distruggere intere fabbriche in patria e all'estero. Stampando denaro (in un modo o nell'altro) in reazione a uno shock commerciale, quantomeno in un'economia a livello di piena occupazione prima che lo shock si verifichi, non si ottiene altro che un'economia più povera, aggiungendo però l'inflazione all'elenco dei mali economici. La corretta contromisura politica, a nostro avviso, sarebbe semplicemente la conclusione delle ostilità commerciali.



Purtroppo, vi sono ben pochi indizi di una pace imminente su questo fronte. A prescindere dalle imprevedibili esternazioni politiche del presidente americano Trump, nuovi segnali preoccupanti indicano un aumento dei trend protezionistici: non solo il conflitto tra Corea del Sud e Giappone, ma anche le tensioni tra Unione europea (UE) e diversi Paesi in via di sviluppo. Il nuovo Parlamento europeo sarà probabilmente più propenso a mostrare i muscoli, in particolare sugli aspetti commerciali legati alle questioni ambientali. Continuiamo a sperare che alla fine prevalgano gli interessi economici. Nel frattempo, però, i conflitti commerciali in generale, ma soprattutto quello tra Stati Uniti e Cina, rimangono un freno per l'economia mondiale. Siamo invece abbastanza fiduciosi su altri due temi politici in primo piano. Per quanto riguarda la Brexit, crediamo che il nuovo Primo Ministro Boris Johnson, continuando a battere sul tamburo del "No-deal", riuscirà probabilmente a evitare che il Regno Unito e i restanti 27 Paesi dell'UE avanzino ignari verso un'uscita senza accordo, mentre in Italia le elezioni anticipate sembrano per il momento evitate.



Riassumendo, il mondo si trova ad affrontare una decelerazione della crescita. Tuttavia non ci aspettiamo una recessione negli Stati Uniti, in Cina o nell'intera Eurozona. Crediamo che la politica monetaria rimarrà espansiva, a supporto dell'economia e dei mercati finanziari. In Europa si scorgono segnali di un possibile allentamento delle politiche fiscali, che però non sarà probabilmente sufficiente per ottenere un evidente effetto sull'economia nei prossimi 12 mesi. L'inflazione dovrebbe rimanere bassa, almeno per il momento. È possibile che questa valutazione relativamente favorevole, nostra e delle banche centrali, sia sbagliata? Sicuramente, e sotto più di un aspetto!
Negli Stati Uniti, alcuni segnali preoccupanti indicano una contrazione dei margini di profitto. In passato le aziende americane hanno quasi sempre reagito a simili sviluppi ricorrendo ai licenziamenti, talvolta anche piuttosto repentini. Ma è troppo presto per dire se lo shock causato dalla guerra commerciale si svilupperà esattamente lungo queste linee. Contrariamente a quanto molti pensano attualmente, le guerre commerciali non causano necessariamente le recessioni, né tendono a provocarle.


Possono incidere negativamente sul valore a lungo termine delle fabbriche e delle aziende esistenti, ma non necessariamente sull'ammontare di capacità produttiva residua che potrebbe rimanere inutilizzato per alcuni trimestri. Se le tensioni commerciali dovessero continuare ad aumentare, si profila uno scenario alternativo che conviene almeno prendere in considerazione. Uno scenario probabilmente noto a chiunque ricordi ancora i giorni di stagflazione degli anni 70: come per gli shock petroliferi, l'aggiunta di politiche monetarie e fiscali accomodanti a uno shock commerciale probabilmente si rivelerà una mossa inflazionistica nel lungo periodo. C'è da sperare che i leader politici di oggi non ripetano gli errori del passato.

Johannes Müller, Head of Macro Research di DWS


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