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Editoriale
Il giochino dello spread
Era il 2011 e gli italiani conobbero una parola fino ad ora sconosciuta: lo spread. Si tratta del differenziale di rendimento tra il titolo di stato decennale italiano e quello tedesco. Un indice che non dovrebbe neanche esistere tra Paesi in cui circola la medesima moneta, ma questa è una delle lacune (volute?) della costituzione dell'Euro. E che lo spread avesse assurto lo status di parametro di riferimento per l'andamento dell'economia italiana, e di ogni altra cosa che avesse a che fare con il nostro Paese, lo si è capito quando arrivò a circa 600 punti base, facendo cadere il governo Berlusconi. Arrivò Monti con i suoi perniciosi compiti a casa, ma l'indice non si abbassò più di tanto, rimanendo per un pezzo intorno a quota 500. A farlo scendere di colpo ci pensò Draghi, con il suo "whatever it takes" in relazione all'Euro. Già questo dovrebbe dimostrare chi è che muove veramente (e da dove) l'indice fittizio. Un indice che peraltro vede l'Italia in posizione peggiore di Francia, Spagna, Portogallo e ormai tallonata dalla Grecia. Peraltro, come per la svalutazione monetaria, la questione è biunivoca: un titolo sale anche stando fermo se il suo corrispettivo scende, e viceversa. Se la Germania ha tassi negativi e tendono a scendere, lo spread si allarga anche se i rendimenti italiani rimangono fermi. Inoltre, non è possibile paragonare l'economia della seconda potenza manifatturiera europea a Paesi che cubano frazioni del nostro Pil. E' chiaro quindi che lo spread è stato creato e manovrato come mero strumento politico, che serve a tenere sotto scacco l'Italia. Decisamente qualcuno lassù vorrebbe un altro governo, magari tecnico, tanto per spolparci ancora un po'.
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