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Editoriale
Sette inutili anni di austerity
I dati sono chiari ed espliciti: per l'ennesimo trimestre l'Eurostat ha confermato che l'Italia cresce, ma cresce molto meno delle altre nazioni dell'eurozona. La stima flash relativa ai primi tre mesi 2018 indica che stiamo per giunta rallentando, passando dall'1,8% del III quadrimestre, all'1,6% del IV, fino all'odierno 1,4%. La Germania, pur anch'essa in calo, fa un 2,3%, dopo un 2.9%. La Francia stacca un 2,1%, la Spagna un 2,9%. Tiene la produzione industriale, ma sappiamo che il nostro Paese è vocato all'export, che tiene nonostante la concorrenza internazionale sempre più agguerrita, e con una robusta deflazione salariale. La cartina di tornasole è la congiuntura di Confcommercio, che conferma la frenata dei consumi con un -0,1% ad aprile. Il calo è la sintesi di un aumento dello 0,4% della domanda relativa ai servizi e di una riduzione dello 0,3% di quella per i beni (-0,2% su anno). Timore di un aumento di imposte, disoccupazione diffusa e minori sicurezze legate al proprio futuro non aiuteranno certamente a farli ripartire. Senza contare che l'esplosione della tanto osannata Gig economy ha creato una pletora di lavori sottopagati. Intanto, il debito pubblico torna sopra quota 2.300 miliardi di euro e senza crescita adeguata del Pil saremo ancora una volta nei guai coi parametri di Maastricht. Al punto che Dombrovskis e Katainen hanno già ammonito preventivamente il prossimo governo italiano (quale?) che non saranno concessi sforamenti o altre eccezioni. Vorremmo sommessamente sapere a cosa sarebbero serviti tutti questi anni di austerity e grandi riforme, visto che i conti pubblici non migliorano, le spese dello stato sono ai minimi e la popolazione è sempre più povera. Colpa di Putin o di Trump?
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