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Editoriale
Germania, surplus e disuguaglianze
Alla fine ci sono arrivati anche quelli di Bloomberg: la Germania deve la sua "superiorità" competitiva alla compressione dei salari. Meglio tardi che mai. Del resto, negare l'evidenza è possibile solo fino ad un certo punto. Al di là della qualità dell'industria manifatturiera tedesca, che può rappresentare sicuramente un punto di forza, per poter ottenere il surplus stratosferico dovuto all'export non c'è altro modo che l'abbassamento dei salari dei lavoratori. Per mantenere prezzi favorevoli, non potendo agire sul versante della moneta, si spinge sugli stipendi. Lasciando da parte che un simile surplus è in palese violazione delle sante regole di Maastricht, e che in Germania ci sono circa 9 milioni di mini-jobs (circa 4-500 euro al mese), questa politica conduce sempre ad un crollo dei consumi, oltre che ad amplificare in modo sempre più incisivo il divario tra le classi sociali. Non è un caso se Eurostat indica proprio la Germania come il Paese con le maggiori disuguaglianze d'Europa. E gli industriali, complici anche i dazi di Trump, iniziano seriamente ad esser preoccupati, come dimostra l'indice di fiducia ZEW, crollato ad aprile. Senza contare che, per mantenere il surplus, Berlino ha da tempo ridotto drasticamente gli investimenti interni in infrastrutture, cosa di cui molti cittadini lamentano una sempre minore efficienza. L'economia tedesca dipende ormai troppo dall'estero per non dimostrarsi più fragile di quel che sembri in realtà. Ma la loro classe politica al governo non sembra accorgersene. Meglio puntare il dito sull'Italia e il suo debito pubblico.
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