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25/01/2017

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Mazzalai (Icebergfinanza): Trump e la mission impossible

Riforma fiscale, investimenti in infrastrutture, deregulation è questa in sintesi la "trumpeconomics" che potrebbe portare illusioni di breve e danni rilevanti nel medio e lungo termine

Cosa accadrà dopo il 20 gennaio? L'America ripartirà e creerà nuovi posti di lavoro? Per quanto siano molte le aspettative sulla nuova amministrazione repubblicana, è più che probabile che essa dovrà confrontarsi con una prossima recessione. Lo indica la storia. Ne abbiamo parlato con Andrea Mazzalai, consulente finanziario private e autore del blog Icebergfinanza.

Prima di parlare di futuro, parliamo del presente. Qual è il reale stato di salute degli Stati Uniti che eredita Trump?

La prima domanda che una persona intelligente dovrebbe porsi è la seguente: per quale motivo Trump ha vinto le elezioni presidenziali americane, contro la maggior parte dei pronostici, grazie ai voti della middle class al di là delle polemiche sull'influenza degli hacker russi?
L'americano medio era stufo di sentirsi preso in giro con le favole obamiane. Una crescita media a mala pena superiore al 2% (per il 2016 è prevista inferiore) nonostante la più imponente dose di stimoli monetari e fiscali della storia, una disoccupazione ridotta solo grazie a 9,5 milioni su 10 di posti di lavoro precari, atipici, lavori a contratto e a progetto, lavori interinali o in appalto che durano lo spazio di un istante, oltre un milione di posti nell'industria manifatturiera sostituiti da più di un milione di barman e camerieri.


Per non parlare poi della dimensione dei salari e dei redditi della classe media, facendo finta di dimenticare oltre 43 milioni di americani che vivono con i food stamps, sussidi medi da 124 dollari al mese saliti dai 28 milioni del 2008. Partecipazione al lavoro ai minimi da decenni, i redditi della classe media ai minimi 1968, debito federale ai massimi di sempre, trilioni di debiti accollati agli studenti della classe media e così via. Se questo è il reale stato di salute dell'economia americana, allora prepariamoci alla prossima recessione.

Alla luce di questi dati, qual è la tua opinione generale sul programma del nuovo Presidente?

Si tratta di un programma ancora tutto da definire, decifrare, che dovrà fare i conti con la realtà di un sistema economico/finanziario profondamente interconnesso. Riforma fiscale, investimenti in infrastrutture, deregulation è questa in sintesi la trumpeconomics che potrebbe portare illusioni di breve e danni rilevanti nel medio e lungo termine. Una riforma fiscale che potrebbe rivelarsi inefficace e regressiva come quelle di Bush, difficilmente Trump riuscirà a risollevare le condizioni economiche della classe media.


Secondo alcune previsioni elaborate dal Tax Policy Center istituto di analisi indipendenti su questioni fiscali che riunisce i massimi esperti americani in materia, lo 0,1% della popolazione otterrà una diminuzione delle tasse del 14 % mentre la classe media non andrà oltre il 2%.
Tradire le illusioni e le aspettative dei mercati in un simile contesto come quello attuale, potrebbe essere davvero pericoloso. L'illusione di una crescita annua intorno al 4%, i 25 milioni di posti lavoro promessi in 10 anni, è la più evidente.
Se qualcuno si fosse preso la briga di studiare seriamente la reaganomics si sarebbe accorto che le variabili in gioco sono innumerevoli. Difficilmente la riforma fiscale favorirà la classe media che ha disperato bisogno di più lavoro e non meno tasse. Nessuno può dire se le imprese risponderanno a sgravi fiscali aumentando l'occupazione in assenza di domanda e eccesso di offerta. Il sostegno alla classe media non solo attraverso slogan pre-elettorali è fondamentale. Ad esempio, se gli incentivi agli investimenti in infrastrutture saranno solo crediti di imposta, chi ci dice che le imprese risponderanno positivamente o a fronte di incentivi a riportare lavoro e capitali in America, le stesse aziende invece di investire, non aumenteranno i dividendi, riacquisteranno azioni proprie, o utilizzeranno i capitali per ulteriori acquisizioni o fusioni.


Le variabili impazzite di una ipotetica guerra commerciale o del ritorno del protezionismo non possono essere sottovalutate. Per chi come me ha studiato a fondo le dinamiche della crisi del ?29, ciò che accade con la sciagurata scelta di imporre dazi attraverso la famigerata Smoot-Haley Tariff Act, una legge che secondo i suoi ideatori deputati repubblicani, avrebbe regolato il commercio con l'estero, incoraggiato le industrie, protetto il lavoro degli americani, sentire ripetere le stesse cose, equivale ad un brivido lungo la schiena.
Affascina la sicurezza di alcuni economisti o analisti, quando si spingono a pronosticare dinamiche sulla base di esperienze passate, senza conoscerle a fondo e senza contestualizzare il tutto in questa immensa deflazione da debiti. Ricordo a tutti che dalla fine della crisi il debito è aumentato di oltre il 45% in rapporto al Pil mondiale, in una deflazione da debiti questa è un'ipoteca terribile sulla crescita futura.
Se proprio vogliamo mettere in risalto un pezzo di storia è dal 1928 che Presidenza, Camera, Senato e Corte Suprema sono in mano ad uno stesso partito e l'anno seguente sappiamo tutti cosa accadde.


Gli unici presidenti-imprenditori della storia degli Stati Uniti furono Harding e Hoover, repubblicani che amministrarono il Paese portandolo alla Grande Depressione.
L'idea di rinegoziare tutti i trattati commerciali o diversamente chiuderli, che rischia di riprodurre una guerra commerciale è supportata dalle recenti nomine. Wilbur Ross, come segretario al commercio, contrario da sempre agli accordi di libero scambio e nemico giurato della Cina che secondo lui ha causato enormi perdite di posti di lavoro alle aziende degli Stati Uniti. L'economista Navarro a capo di un nuovo ufficio White House National Trade Council, che supervisionerà i commerci e la politica industriale statunitense, è uno che ha scritto un libro dal titolo "Morte per mano della Cina". Sono ben più che un indizio. Lasciamo trascorrere i primi cento giorni e poi si potrà dare un giudizio nel merito, anche se non posso fare a meno di esprimere tutto il mio scetticismo.

Wall Street macina record ogni settimana che passa. Un trend destinato a continuare anche dopo il 20 gennaio?

Se guardiamo alla storia, visto che tutti si dilettano a fare confronti tra la reaganomics e la trumpeconomics che verrà, non c'è scampo, in molti dimenticano la lunga recessione che Reagan dovette affrontare.



Noi pensiamo che anche Trump dovrà confrontarsi con una prossima recessione, le sue misure come accadde con Reagan non faranno in tempo a risollevare l'economia americana. Con buone probabilità se la banca centrale americana continuerà a serrare la politica monetaria gli effetti della politica fiscale spariranno, e il dollaro forte produrrà deficit commerciali sempre più grandi.
Secondo alcuni studi un continuo apprezzamento del dollaro, potrebbe compromettere la posizione patrimoniale estera degli USA, l'85% delle passività americane sono denominate in dollari, mentre il 70% delle attività in valuta estera. Un ulteriore apprezzamento del 20% del dollaro produrrebbe perdite per circa il 13% del Pil. Non dimentichiamoci che o una nuova crisi cinese o internazionale, una nuova crisi bancaria in Europa e altri fattori potrebbero completamente travolgere le aspettative della trumpeconomics. Fattori positivi per l'America diventeranno inevitabilmente fattori negativi per buona parte delle economie emergenti.
E' importante fare notare anche che il recente rialzo dei rendimenti è pura illusione visto quanto accadde all'inizio dell'era Reagan.


Nel grafico avete la dinamica dei rendimenti dei titoli di Stato americani durante la presidenza Reagan. Si certo erano altri tempi e altri tassi, ma il Giappone e la sua storia, sono lì ad insegnarci che non c'è limite al fondo e soprattutto l'analisi empirica dimostra che i rendimenti e quindi i tassi posso scendere ancora o al limite restare a questi livelli per molti anni ancora. Ad esempio il Giappone ci insegna che non necessariamente un "vaste programme" di investimenti in infrastrutture aiuta a rilanciare l'economia.

Trump ha annunciato una riforma fiscale incisiva. Riuscirà a stimolare crescita e consumi senza far esplodere debito pubblico e deficit?

Partiamo dalla realtà storica e senza andare troppo lontano, ricordiamo a tutti che dal 2001 ad oggi, quindi sotto le amministrazioni Bush e Obama, la tassazione della classe media americana ha raggiunto minimi storici mai visti prima. Peccato che parallelamente il reddito medio delle famiglie sia costantemente sceso negli ultimi 16 anni. Solo il credito al consumo è riuscito a supportare la spesa della middle-class in questi anni e negli ultimi anni il debito delle famiglie è tornato a crescere.



Difficile che Trump possa riuscire in un simile contesto macroeconomico, ancora più difficile crederlo dopo che lo stesso Obama ha fallito. Non dimentichiamoci che la precedente amministrazione democratica ha fatto ampio uso di stimoli fiscali anche se in maniera differente. La Fed nel 2008 supportò il credito al consumo alle famiglie per circa 200 miliardi di dollari, finanziamenti per l'acquisto di automobili, carte di credito e altri finanziamenti ma consumi e crescita rimasero anemici. Inoltre è fondamentale il timing, credo che un simile piano fiscale non vedrà la luce prima della fine dell'anno, un lasso di tempo che l'economia americana non si può permettere di perdere.
Inoltre, se la minaccia di mettere una tariffa del 10% sulle importazioni diverrà realtà, difficilmente le aziende potranno fare a meno di trasferirla al consumatore finale, cancellando in parte gli effetti della riforma fiscale. A loro volta altri Paesi metteranno dazi sull'export americano di qualità facendo scendere la produzione e quindi la possibilità di nuova occupazione portando ad una riduzione dei posti di lavoro.



Il partito Repubblicano mira a compensare eventuali riduzioni delle aliquote fiscali proposte da Trump con l'eliminazione di tutte le deduzioni, tranne quelle sugli interessi dei mutui, il che rischia di vanificare i tagli. Per poter fare questo servirebbe una crescita economica almeno pari a quella osservata dopo la riforma fiscale di Reagan del 1986, serve un aumento dei redditi reali.
Petrolini diceva che bisogna prendere il denaro dove si trova: presso i poveri. Hanno poco, ma sono in tanti. Il denaro oggi bisogna farlo arrivare alla classe media: hanno troppo poco, ma sono in tanti e farebbero ripartire inflazione e crescita.

Siamo nel pieno di una deflazione da debiti, non è che la FED più che due rialzi dei tassi varerà un nuovo quantitative easing?

Mentre il mondo intero persegue una politica monetaria accomodante a dir poco, la Fed insiste in maniera poco convinta nell'inasprimento della sua politica. Questo non può che portare ad un continuo rafforzamento del dollaro che non è affatto positivo per la politica economica che Trump vuole portare avanti.
Nella prima metà degli anni 80 a seguito dei continui rialzi dei tassi da parte della Federal Reserve, il dollaro si apprezzò di quasi il 45% rispetto alle principali valute.


Come risultato, gli Stati Uniti persero competitività e la bilancia commerciale collassò ai minimi nel 1985. Solo l'accordo del Plaza Hotel del 22 settembre del 1985 riuscì ad invertire la tendenza.
Ad oggi dal 2011 siamo vicini al 35% di apprezzamento, ma a differenza degli anni ottanta, visti i proclami del nuovo presidente e alla sua intenzione di scatenare una guerra commerciale, nessuno aiuterà gli USA a bloccare l'apprezzamento del dollaro, anzi ci sarà una corsa alla svalutazione da parte delle altre economie. A quel punto la Fed non potrà fare altro che invertire la sua politica monetaria.

Che cosa cambierà per l'euro e l'eurozona con il nuovo presidente? Ci prepariamo ad una guerra commerciale e valutaria su larga scala?

Se guardiamo ai benefici prodotti in Europa da un'ampia svalutazione dell'euro e dal crollo del prezzo del petrolio, da emissioni di debito a costo zero, riesce difficile credere come sostiene l'economista Gros che la trumpeconomics porterà benefici all'Europa o addirittura ai Paesi periferici.



E' un'illusione credere che le esportazioni verso l'America sosterranno il nostro Paese solo perché l'impatto di un deprezzamento dell'euro è tre volte più grande rispetto alla Germania. Certo la ricerca dell'indipendenza energetica degli Usa farà scendere ulteriormente i prezzi del petrolio, ma come abbiamo visto negli ultimi anni, questo esprime un beneficio limitato sulle imprese e sui consumatori.
In un suo recente discorso Trump ha messo in evidenza l'aumento negli ultimi anni del deficit commerciale degli Stati Uniti nei confronti della Germania, attaccando l'euro, definito un imbroglio nell'economia mondiale a fare dei tedeschi e del loro surplus commerciale, dichiarando che qualcuno ci sta guadagnando violando le regole. D'ora in poi seguite le regole o ve la faremo pagare, ha affermato in sintesi Trump.
Quindi pensare come fa Gros che gli americani lasceranno fare è pura illusione. Come detto prima e come ho scritto sul blog rivelando le scelte della nuova amministrazione repubblicana, le minacce di una guerra commerciale sono più che reali anche se dovranno fare i conti con la risposta delle altre nazioni.


Non dimentichiamoci che la storia insegna che le guerre commerciali sono sinonimo di deflazione.

Trump ha dichiarato che ripristinerà il Glass-Steagall act sulle banche abolita nel 99 da Clinton. Che effetti avrebbe sui mercati?

Francamente non credo in alcuna maniera a quanto dichiarato da Trump in occasione di un comizio nel North Carolina, solo un'occasione per imputare, giustamente, il costo della crisi americana ai Clinton. La stessa Clinton non si è mai impegnata seriamente sul ripristino della Glass-Steagall e non poteva essere che così, visto che i maggiori finanziatori della sua campagna erano appunto le banche. Lo stesso partito repubblicano ha inserito il ripristino, nella loro piattaforma ufficiale elettorale, in chiaro contrasto al sostegno incondizionato per la grande finanza sempre offerto da quasi tutto l'establishment del partito. Solo una maniera per cavalcare il sentimento contro Wall Street e le banche diffusissimo in America.
Fa sorridere ascoltare i repubblicani che criticano i democratici per aver avuto la mano morbida con la finanza, pensando all'amministrazione Bush e alle precedenti amministrazioni repubblicane.



Ricordo solo che la recente crisi del 2008, la crisi degli anni '90 in Giappone e la Grande Depressione, hanno un unico denominatore comune, ovvero la deregulation, deregolamentazione. La recente crisi subprime americana è figlia di una costante e incisiva deregolamentazione del sistema finanziario, attuata grazie a Bill Clinton, Summers e Rubin segretario al Tesoro.
Trump non ha perso tempo, mettendo una vecchia volpe di Wall Street a guardia del pollaio. La nomina di Jay Clayton a capo della Sec, il comitato di vigilanza della borsa valori, un avvocato che ha difeso diverse aziende, soprattutto banche d'affari sotto la lente di ingrandimento della stessa Sec, uno che in passato si è pure concesso il lusso di criticare la Commissione proprio per essere stata a suo dire eccessivamente severa nell'applicazione delle regole anti-corruzione, è la dimostrazione nulla cambia.
Prepariamoci quindi ad assistere ad un sensibile ridimensionamento della legge Dodd-Frank varata nel 2010, anch'essa peraltro alquanto magnanima e ad una nuova crisi in arrivo dal settore finanziario.


Vedremo nei prossimi mesi, quali saranno le novità.
Concludendo come scrive l'economista Lacy Hunt, considerando l'attuale eccesso di debito pubblico e privato, gli sgravi fiscali ben difficilmente potranno replicare le dinamiche di Reagan e Bush. Oggi il debito federale lordo è ora pari al 105,5% del PIL, rispetto al 31,7% e 57,0%, rispettivamente, di quando sono state attuate le leggi precedenti fiscali repubblicane 1981 e 2002. Gli sgravi fiscali funzionano lentamente, con il trasferimento di solo la metà del loro potenziale benefico nel primo anno e mezzo successivo al momento nel quale le modifiche diventano legge.
Per quanto riguarda l'eventuale rimpatrio dei capitali c'è già il precedente degli anni 2005/2006 sotto l'amministrazione Bush che si rivelò un fiasco. Come abbiamo già detto è molto probabile che i capitali verranno impiegati per riacquistare proprie azioni o favorire fusioni e incorporazioni oltre ad aumentare dividendi. Inoltre, il rischio è di trasferire sulle generazioni future ulteriori fallimenti delle politiche fiscali, aumentando il debito federale a vantaggio quasi esclusivo delle imprese.



Un eventuale miglioramento della regolamentazione impiegherà molto tempo per riflettersi sui risultati economici.
Eccesso di debito generalizzato, soprattutto privato e delle imprese, politica monetaria restrittiva, debole domanda associata ad un eccesso di offerta che frena gli investimenti, ciclo economico verso la sua naturale conclusione, innovazione tecnologica e dinamiche demografiche negative, sono solo alcuni dei motivi per i quali, purtroppo, al momento attuale l'evidenza sembra far propendere tutto verso la terza ipotesi di una deflazione da debiti, ovvero la contrazione del debito attraverso fallimenti generalizzati o ristrutturazione del debito stesso.  


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