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09/11/2016

economia

La politica potrebbe rovinare tutto?

Boone (Axa IM): le banche centrali alzeranno gradualmente i tassi ma gli imminenti avvenimenti politici (elezioni negli USA, negoziati sulla Brexit e referendum in Italia) sono i principali rischi da qui a fine anno

Nei Paesi sviluppati la ripresa prosegue e l’inflazione inizia a fare capolino: le banche centrali forse sono riuscite veramente a far uscire i paesi da una Grande Depressione stile anni ‘30. Gli Stati Uniti crescono a un tasso intorno al 2%, e anche l’inflazione è tornata sul 2%. La disoccupazione è inferiore al 5% nonostante stia crescendo la forza lavoro, un grande successo per la Federal Reserve che ha saputo contenere le conseguenze della crisi finanziaria globale.
Anche l’Eurozona ha recuperato dopo il rallentamento prolungato tra il 2009 e il 2013. Grazie a una politica monetaria aggressiva, soprattutto dalla metà del 2012, seppur ostacolata da politiche fiscali eccessivamente restrittive fino al 2015 e dalla mancata risoluzione dei problemi del settore bancario (che in parte spiegano il ritardo della ripresa rispetto agli Stati Uniti), la crescita nell’area euro finalmente è in fase di recupero e probabilmente quest’anno si attesterà all’1,5%.
Inoltre, mentre svanisce l’effetto base, la Banca Centrale Europea sembra vicina alla vittoria sul fronte dell’inflazione che dovrebbe salire oltre l’1% all’inizio del 2017.

L’ascesa del prezzo del petrolio potrebbe consentire alla banca centrale di avvicinarsi alla soglia del 2% entro il 2019. Nel complesso, sia gli Stati Uniti sia l’Eurozona potrebbero diventare il motore della crescita e dell’inflazione nei paesi consolidati.
In Giappone, ci aspettiamo dinamiche analoghe a quanto è avvenuto negli ultimi anni, con una crescita nominale tra l’1,5% e il 2,5%. Infine, il Regno Unito avrebbe potuto realizzare performance eccellenti, se non fosse stato per la Brexit: Le stime di crescita per il 2017 sono scese dal 2,1% prima del referendum allo 0,7% dopo il voto sull’uscita dall’Unione Europea. Ancora peggio, con la svalutazione della sterlina del 15%, l’inflazione è destinata a salire al 3% e questo significherebbe stagflazione, lo scenario più difficile per una banca centrale.

Le Banche Centrali

Le banche centrali si sono faticosamente sforzate ad abbassare la curva dei rendimenti nei mercati sviluppati, e hanno avuto successo fino al punto del cosiddetto “tasso di inversione”. Questo significa che tali politiche potrebbero diventare controproducenti. La Fed sembra la più sollevata tra tutte le banche centrali.

Ha portato a termine il suo mandato sul fronte dell’inflazione e dell’occupazione e sembra persino che si trovi dietro alla curva rispetto ai cicli precedenti. Per la BCE, e anche per il Giappone, le sfide sono più complesse.
Mentre Mario Draghi può dire di aver impedito il tracollo dell’Eurozona e aver rimesso l’economia sulla strada della ripresa, l’inflazione resta contenuta, ma le banche accusano la BCE di aver adottato politiche che danneggiano il loro business model al punto da diventare “controproducenti”: la BCE forse è giunta al tasso di inversione. Per tasso di inversione (reversal rate) si intende il tasso al quale la rotazione degli strumenti finanziari nei portafogli degli investitori non contribuisce più alla ripresa economica dell’area euro ma indirizza gli investimenti al di fuori della regione, spingendo le famiglie ad accumulare risparmi per recuperare il reddito previsto nel lungo periodo anziché ridurre il risparmio per incrementare la spesa. Tuttavia, guardando al futuro, l’inflazione è destinata a salire e l’economia ha recuperato per cui la BCE prevede una crescita del Pil nominale del 3%.



Considerate le pressioni popolari in vista delle elezioni in Germania (nell’autunno 2017), possiamo aspettarci che la BCE metta in conto una progressiva chiusura del QE a dicembre di quest’anno.
La Banca del Giappone ha già avviato questo processo (“tapering”) passando dal target degli acquisti di titoli a quello della curva dei rendimenti. Ma è la Banca d’Inghilterra che dovrà affrontare la sfida più imponente. Se avessero vinto coloro che volevano restare nell’Unione Europea, avrebbe potuto veleggiare tranquillamente verso la normalizzazione dei tassi, al contrario si trova ad affrontare una possibile stagflazione e la fuga degli investitori stranieri dai titoli sovrani. Tuttavia ha due elementi a suo vantaggio: primo, la composizione del deficit della bilancia con l’estero, con un’ampia percentuale di attività in valuta estera ma passività in valuta locale, beneficerà della svalutazione della sterlina. Secondo, le possibilità illimitate del Quantitative Easing.
Nel peggiore dei casi, la Banca d’Inghilterra potrebbe agire come acquirente di ultima istanza e acquistare Gilt senza limiti.


Come è avvenuto dal 2008, le banche centrali restano le principali responsabili di un intervento.
In tale scenario, la domanda fondamentale è se i tassi possono salire lentamente e continuativamente. Come per un soft landing, questo scenario sembra troppo bello per essere vero, ma crediamo sia certamente possibile. Lo dimostrano le precedenti esperienze della Fed con la chiusura dei piani di QE, la massima prudenza delle banche centrali e gli acquisti di titoli da parte della BCE (anche se in misura ridotta dopo l’estate).
In effetti, ci aspettiamo che la BCE inizi a ridurre il piano di QE dalla metà del 2017 con gradualità, continuando ad acquistare obbligazioni per almeno 500 miliardi di euro fino all’inizio del 2018, con conseguenze sulle curve dei rendimenti. Le dinamiche nel Regno Unito potrebbero generare volatilità. Anche se siamo fiduciosi che la Banca d’Inghilterra alla fine “farà tutto quanto necessario” per affrontare tali sfide, la volatilità risultante potrebbe comunque fare danni.
Il rischio principale per uno scenario che potremmo considerare “eccessivamente ottimista” (seppur affatto esuberante) è la politica.


Le imminenti elezioni sono incentrate sul confronto tra i partiti tradizionali e i movimenti più populisti che promuovono il protezionismo e politiche fiscali o valutarie attive che potrebbero minare la ripresa e farci sprofondare nella recessione, con poche possibilità di recupero. In effetti, alcuni partiti politici hanno iniziato a criticare le banche centrali: nel Regno Unito con un approccio favorevole alla Brexit e contrario alla Banca d’Inghilterra, negli Stati Uniti col dibattito elettorale, e persino in Francia e Germania con il profondo scetticismo nei confronti della BCE. Analogamente, dopo decenni di fiorente globalizzazione che prometteva prosperità per tutto il mondo, senza poi riuscire a distribuire i vantaggi di questo sviluppo, le proteste contro il libero scambio hanno toccato livelli senza precedenti. Un rallentamento degli scambi commerciali danneggerebbe ulteriormente a crescita.

Le elezioni presidenziali negli USA

Negli Stati Uniti i risultati dei sondaggi restano troppo vicini per escludere completamente un esito a favore di Donald Trump. In base alla nostra ricerca, se Trump presidente si limitasse ad adottare gli stimoli fiscali rispetto alla moltitudine di proposte che ha avanzato in campagna elettorale, farebbe crescere la domanda e il Pil oltre le aspettative di consensus.


Questo surriscaldamento farebbe salire l’inflazione, scatenando un rialzo non solo dei tassi di interesse, ma anche dalla curva dei rendimenti. E’ uno scenario positivo per i mercati?
È improbabile che Trump si limiti alle promesse fiscali, tanto più che un Congresso diviso limiterebbe la sua sfera di intervento. L’applicazione di dazi doganali (dove avrebbe più facilità di manovra rispetto alla politica fiscale), a prescindere dalla questione immigrazione, spingerebbe l’economia americana e il resto del mondo verso una crisi prematura. In quel momento la Fed potrebbe avere un nuovo presidente (2018), con tutte le incertezze che comporta questo cambiamento. In tale scenario, la banca centrale americana avrebbe probabilmente poco spazio di manovra per tagliare i tassi, quindi ricorrerebbe al QE rischiando però contraccolpi con un’amministrazione Trump che ha minacciato di limitare la libertà della banca centrale. Questo farebbe scendere di nuovo la curva dei rendimenti.

La Brexit

Theresa May e i membri del partito conservatore hanno risvegliato timori che venga adottata una “linea dura” sulla Brexit e di un impasse politico per la Banca d’Inghilterra.


Al congresso del partito, il Primo Ministro May ha dato priorità all’immigrazione rispetto all’accesso al mercato, e con altri ministri si è discusso di andare oltre l’unione doganale UE. La ripresa nel Regno Unito non è riuscita a ristabilire l’equilibrio interno ed esterno (il deficit delle partite correnti britannico è pari al 5% del Pil), dunque la prospettiva di una linea dura sulla Brexit ha spinto al ribasso la sterlina e scatenato un’ondata di vendite dei Gilts.
L’impatto della Brexit si farà sentire sull’economia reale solo lentamente. Tuttavia persistono i timori che la svalutazione della sterlina porti l’economia verso la stagflazione, mentre i rendimenti dei Gilts lasceranno poco spazio di manovra alla Banca d’Inghilterra, soprattutto perché gli acquisti di obbligazioni continuano ad essere fortemente criticati dai politici conservatori. Eppure, la Banca d’Inghilterra è abbastanza indipendente da oltrepassare i contrasti politici e sostituirsi agli acquirenti esteri di Gilt che abbandonano il mercato. Sarebbe pero’ un altro fattore destabilizzante per l’economia britannica.



Speriamo che l’Autumn Statement del 23 novembre risponda a questi timori con un sostegno fiscale (seppur limitato, considerato l’ampio deficit e debito di bilancio). Difficilmente basterà però a compensare l’incertezza generata dalla Brexit: l’economia britannica corre il rischio di un lento e inesorabile allontanamento degli investitori esteri.

Italia

Mentre i sondaggi sembrano sempre più incerti sull’esito del referendum costituzionale promosso da Matteo Renzi, recentemente ha prevalso la logica della politica e il Primo Ministro ha preso le distanze dal risultato. Mossa saggia, dato che la ricapitalizzazione di alcune banche italiane dipende in parte da uno scenario politico stabile e dalla fiducia che l’Italia continui sulla via delle riforme. Stimiamo che la probabilità di un esito sfavorevole a Renzi sia inferiore al 15%: per esito sfavorevole intendiamo una serie di avvenimenti che cominciano con una vittoria dei No, seguita dalle dimissioni di Renzi, dall’incapacità di costituire un nuovo governo, e proseguono con la corte costituzionale che convalida l’Italicum (dando una forte maggioranza al partito che vince le elezioni), e nuove votazioni che portino al potere il Movimento 5 Stelle.


Una serie di eventi sfortunati che non ci auguriamo. È anche possibile che, in caso di vittoria dei No, Renzi non si dimetta, oppure venga incaricato dal Presidente della Repubblica di formare una nuova coalizione. In tal caso, l’Italia proseguirebbe sulla strada intrapresa, anche se le riforme saranno più difficili da attuare, in un Paese con una crescita della produttività assente e un indebitamento elevato. Non può essere una situazione stabile.

Laurence Boone, Research & Investment Strategy Axa IM


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