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Editoriale
Un paradiso fiscale di nome City of London?
Questa volta facciamo un po' di fiction (ma non troppo). E' passato quasi un mese dal voto inglese, sono cambiati praticamente tutti i protagonisti della scena politica locale, la sterlina ha subito una robusta e sana svalutazione che ha ridotto il debito pubblico e la bolla immobiliare che gravava su Londra ha iniziato a sgonfiarsi.
Con il referendum UK esce quindi dalla UE, i negoziati si preannunciano lunghi e il rischio (concreto) è che si arrivi prima alla rottura dell'euro e della UE stessa rispetto alla loro conclusione. E quando anche rimanessero in vita, si arriverà ad un accordo simile a quello con la Norvegia. Magari ci sarà l'ulteriore secessione di Scozia e Irlanda del Nord. Ma l'Inghilterra ha da tempo scelto la via dei servizi a quella della produzione. E su questa conta.
Contrariamente a ciò che si pensa, la City di Londra non è direttamente coinvolta nella Brexit. Tenendo conto del suo particolare statuto (si tratta di uno Stato indipendente sotto l'autorità della Corona) non ha mai fatto realmente parte dell'Unione europea. Probabilmente non potrà più ospitare le sedi di multinazionali e sicuramente delle autority che si trasferiranno nella UE. Però potrà utilizzare la sovranità di Londra per sviluppare il mercato del renmimbi.
Già nello scorso aprile la City ha ottenuto i vantaggi necessari per poter siglare un accordo con la Banca Centrale Cinese (PoB). Stando così le cose, la City potrà diventare l'hub di elezione per il commercio e il movimento di capitali cinesi, e un vero paradiso fiscale per gli europei.
Un Paese libero dall'influenza USA e da quella della UE a trazione tedesca.
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